I cristiani in Siria possono rappresentare l’esempio per le altre comunità religiose nel Paese. Questa è una delle tesi racchiuse nel libro Il giorno dopo la primavera, dove la primavera è quella araba che ha sconvolto, direttamente o indirettamente, l’assetto di tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Autore del libro, il vaticanista del Giornale Radio Rai ed esperto di Medio Oriente, Riccardo Cristiano, che ha intervistato Samir Frangieh, intellettuale libanese di spicco ed ideologo dell’intifada che allontanò i siriani dal suo Paese. “Il libro è il tentativo di raccontare diversi colloqui con lui – dice Riccardo Cristiano – in una prospettiva di valutazione della primavera araba e delle sue conseguenze politiche ed ideologiche, accostando anche il ruolo dei cristiani nella ‘rivoluzione’ con precisi riferimenti alla vicenda libanese che, secondo Frangieh, costituisce un modello importante per il dopo primavera. I libanesi, che negli anni Settanta hanno pagato un prezzo altissimo, possono dare un contributo altissimo agli altri”.
Ci spieghi meglio.
Secondo l’idea di Frangieh, il modello libanese può funzionare per tutti i Paesi arabi del bacino del Mediterraneo, dall’Iraq all’Egitto grazie agli accordi di Ta’if (trattato inter-libanese destinato a mettere fine alla guerra civile libanese, ndr): accordi che prevedono un meccanismo che potrebbe funzionare in molti paesi ma che non è ancora stato realizzato. Ora, in Libano si parla di “confessionalismo”, che prevede una Camera unica con la metà degli eletti cristiani e l’altra metà musulmani. Il presidente della Repubblica è maronita mentre il capo del Governo è sunnita e il presidente della Camera è sciita: un meccanismo che ha accontentato tutte le varie confessioni e che è stato utile a fermare la guerra civile.
Applicando gli accordi di Ta’if come cambierebbe l’assetto del Paese?
Prevedono un modello bicamerale nel quale la Camera verrebbe eletta con il meccanismo di “un uomo, un voto” permettendo la costituzione di partiti politici, mentre il Senato verrebbe eletto su base comunitaria, garantendo quote di rappresentanza a tutte le comunità. In questo modo si potrebbe parlare di diritti garantiti all’uomo e garanzie offerte alle comunità: l’individuo è titolari di diritti e le comunità sono intestatarie di garanzie. Se in Libano si passasse, in maniera schietta, dall’attuale sistema alla Camera unica, Hezbollah, la comunità più numerosa, finirebbe per prendere la maggioranza assoluta: questo farebbe scattare nelle comunità il sentimento negativo di una sorta di “piazza pulita” che innescherebbe una nuova guerra civile. Se applicato veramente, il modello Ta’if darebbe una maggiore garanzia ai diritti individuali e nello stesso tempo a tutte le comunità. Si creerebbe così una democrazia che Fragieh definisce “consensuale” e che potrebbe essere un modello di riferimento per i Paesi arabi.
E se, per esempio, lo applicassimo alla Siria?
Immaginando un dopo Assad, gli alawiti potrebbero rasserenarsi sebbene siano della stessa confessione dell’attuale presidente. Inoltre il ruolo dei cristiani potrebbe essere fondamentale. In Siria, per Frangieh, ci sono troppe comunità islamiche impaurite e in perpetua guerra fra di loro, e i cristiani nel dopoguerra, proprio perché fuori da quelle battaglie ideologiche, potrebbero rappresentare l’anello di congiunzione ideale: potrebbero diventare i “garanti” dei drusi, degli alawiti, degli sciiti. Un ruolo, dunque, di “honest broker” all’interno del Paese.
Per Frangieh si devono attuare altri cambiamenti oltre a quello prettamente politico?
Il cambiamento dovrebbe iniziare anche nella società. Frangieh parte da un confronto con l’Occidente, da cui il mondo arabo ha sempre avuto l’impressione di essere discepolo. Da qui si è arrivati ad una distruzione delle tradizioni per la scelta di un modernismo occidentalista, in realtà mai raggiunto davvero. Abbiamo visto che l’occidentalizzazione forzata dai regimi non funziona e bisognerebbe trovare un sistema autonomo in cui gli individui siano intestatari di diritti, ma in una prospettiva del tutto nuova. Il tutto salvaguardando le diverse specificità delle tradizione araba che non è figlia dell’“io sovrano” occidentale.
Cosa intende per “io sovrano” occidentale?
Dopo l’illuminismo, la libertà e la democrazia occidentali hanno preso una strada individualista, quella dei diritti dell’individuo identificati nell“io sovrano”, responsabile solo per sé e di sé. Un “io sovrano” sempre più solo e impoverito. Nella cultura araba, invece, il termine individuo non esiste ma c’è il vocabolo fard che significa “uno di una coppia” perché il singolo si realizza andando oltre se stesso: nel rapporto con la moglie, con il padre, con i figli o con la società, cosa che non accade nell’individualismo occidentale. La nuova società araba dovrebbe essere la giusta misura fra tradizioni arabe o cultura occidentale.
Qual è il pensiero di Frangieh sulla primavera araba?
Pensa che le manifestazioni “ad onda” siano state pervase da una profonda empatia. Durante le proteste di piazza in Yemen, i manifestanti si rivolgevano ad Ali Saleh in francese.
Una cosa piuttosto curiosa.
Non poi tanto, perché gli yemeniti avevano copiato gli slogan del tunisi cambiando solo il soggetto delle loro proteste. Avevano trasformato gli slogan “Ben Ali dégagé” in “Ali Saleh dégagé”, pur non essendo francofoni ma arabi. Avevano “francesizzato” la loro rivoluzione attraverso la vicinanza, la partecipazione e la solidarietà: l’essere privati delle loro libertà li ha resi fratelli, senza leader e senza colonnelli. Non c’è una guida, un punto di riferimento ma è rappresentata solo da energie sociali nuove, un prodotto popolare collettivo. Un frutto di un mutamento sociale irreversibile.
La primavera araba è iniziata con un gesto che non potremmo definire empatico ma, anzi, violento.
Frangieh non la pensa così. Mohamed Bouazizi che si è dato fuoco, è l’opposto dell’estremismo islamico perché non va ad uccidere nessuno, ma sacrifica la sua vita con un gesto quasi “cristico”, dando un contributo di salvezza e libertà per gli altri.