La libertà è un diritto naturale. Naturale e inalienabile. Possiamo dirlo anche senza capire cosa significhi. Secondo la Declaration of Indipendence degli Stati Uniti così sono anche “la vita” e “la ricerca della felicità”. Anche questo possiamo dirlo senza capirlo. Quando però ci si trova di fronte a una tragedia come quella di Sandy Hook capirlo diventa indispensabile. Perché senza capire non si possiede, i concetti restano astratti. Solo quando si capisce davvero qualcosa lo si può vivere. Per capire però occorre un lavoro. Sempre. Siamo disposti a farlo? Come quando ero al liceo e non capivo la matematica, ma non avevo nessuna intenzione di spremermici sopra. E adesso non la so, ed è un peccato, cioè un di meno. Mi devo accontentare di saper fare di conto rapidamente. Vorremmo tutti che la vita fosse semplice, che quel che c’è da comprendere potesse essere afferrato al volo. Possibile che ci si debba scervellare su tutto? E anche ci fosse veramente da fare questo lavoro per “capire”, come si fa?



Dicevo di Sandy Hook. Il dibattito sul possesso delle armi questa volta porterà certamente a qualche cambiamento. A quel famoso e famigerato secondo emendamento del 1791 verranno messe delle sponde. E’ chiaro che non abbia senso che un privato cittadino si tenga in casa un cannone. Così, si spera, queste cose non accadranno più. Si spera. Ma come si fa a sperare che vita, libertà e ricerca della felicità ci prendano sottobraccio e ci accompagnino quotidianamente ed indichino la strada sicura lungo la quale i nostri figli possono diventare grandi? Mettendo limiti alla libertà? Quando si pongono limiti alla libertà non possiamo non sentire una fitta al cuore. In qualche modo, in qualche misura “sentiamo” che qualcosa non va. E la prima cosa che non va è proprio la confusa idea di libertà che abbiamo. “Speriamo” che ponendo dei limiti la vita si semplifichi. Speriamo, come diceva Eliot, che non ci sia più bisogno di essere “buoni”. Che significa sperare che a noi non venga chiesto niente. Tanto noi un cannone in casa non lo terremmo mai.



Il senso di smarrimento e l’urgenza di agire di questi giorni mi ricordano un po’ il dopo 11 Settembre. Ci venne in soccorso una frase di Don Giussani: “La speranza è certezza nel futuro fondata su qualcosa di presente”. E’ una frase molto più semplice di quel che potrebbe sembrare a prima vista. Basta dedicarci un attimo di attenzione. Basta guardare alla nostra vita di tutti i giorni. Non è cosi? Occorre un punto certo, una cosa di cui siamo sicuri oggi per poter attendere con fiducia quel che ci porterà il domani. Perché il domani non sarà mai la meccanica conseguenza di tutto quel che abbiamo fatto oggi.



Questo lo capiamo. Magari non ci sta bene, ma lo capiamo, e lo capiamo perché lo abbiamo vissuto e lo viviamo sulla nostra pelle. C’è un punto di certezza in questo mondo in cui si uccidono i bambini, in cui ci si massacra in guerre fratricide e sembra non esserci lavoro per tutti?

C’è una promessa che a Natale diventa un bambino. Piccolo piccolo. Una certezza piccola come può essere un bambino appena nato. Piccolo, eppure vero. Un bambino piccolo piccolo che senza dire una parola – perché i bambini piccoli non parlano – entra in questo mondo e misteriosamente ci chiama a sé. Cosa può fare un bambino cosi?

Se vogliamo capire dobbiamo fare come i pastori. I pastori non capivano, non potevano capire. E siccome non capivano, sono andati fino alla capanna. Bisogna fare come i pastori. A Betlemme come a Sandy Hook.