Si passa tanto tempo sulla pensilina della subway, aspettando il treno che ti porti dove devi andare. Ci si sporge, si guarda verso il buio del tunnel per cogliere un segno di quella luce che annuncia l’arrivo del convoglio. La gente legge, ascolta musica e tutti se ne stanno fermi aspettando pazientemente. E’ la routine quotidiana che si ripete per oltre cinque milioni di persone lungo gli oltre 1.300 chilometri di binari di New York. Per la legge dei grandi numeri – ma sarebbe più giusto dire per quel grande Mistero che è la vita – ogni tanto qualcosa va storto.



L’altro giorno un uomo è stato spinto giù, finendo travolto dal treno che neanche un muro avrebbe potuto fermare. Un alterco, una mente squilibrata, una tragedia. Ki Suk Han, la vittima, non tornerà più a casa. Lo squilibrato che ha ucciso, sempre che una casa ce l’abbia, neanche. La violenza, soprattutto quando ingiustificata, ci lascia allibiti. Il pensiero va “naturalmente”, secondo natura, a chi ha perso la vita senza ragioni e a coloro cui è stata strappata una persona cara. E talvolta, in un attimo fuggente di autocoscienza, al fatto che sarebbe potuto capitare a noi. In questo stordimento però spesso s’insinua un bagliore di sinistra curiosità. La violenza ci turba e ci attrae, frullando mente, cuore e istinto come in verità non vorremmo. Una sorta di Yin e Yang, un’ombra di attrazione mischiata ad una luce di dolore. Confusamente. E ci confonde. Questa nostra doppiezza ci lascia l’amaro in bocca.



C’era un uomo presente su quella pensilina della New York subway mentre la tragedia si andava consumando. Un fotografo del New York Post. Cosa fa un fotografo nella vita? Scatta foto. Cos’ha fatto il fotografo del New York Post su quella pensilina? Il fotografo ha ritratto la scena, il suo giornale ha pubblicato la sequenza, la gente ha comprato il New York Post. E adesso si è scatenata la polemica, adesso tutti si stracciano le vesti. Quest’uomo non poteva fare qualcosa?

Sappiamo quello che un fotografo fa per mestiere, ma non possiamo fare a meno di chiederci che cosa fa un uomo quando un altro uomo ha bisogno di lui. Come si chiederebbe Cesare Pavese, qual è il mestiere del vivere in una situazione come quella? Non deve esserci stato molto tempo a disposizione, e non sappiamo con esattezza quale fosse la distanza tra vittima e fotografo. Magari non sarebbe proprio stato possibile salvare quella vita. Magari sì. Sarebbe forse stato sufficiente allungare una mano. Non sta a me giudicare. Ma mettiamo che avrebbe potuto farlo. Perché non l’ha fatto? E io? Cosa avrei fatto io? E tu? Facciamo uno sforzo di immedesimazione però, dobbiamo immaginarci “fotografi”. 



Dobbiamo pensarci di fronte a una tragedia incombente che, ritratta, ci frutterà qualcosa (almeno così ci viene da pensare in quel pochissimo tempo che abbiamo per pensare). Il fotografo come i gladiatori di un tempo: “mors tua, vita mea”. Niente di nuovo sotto il sole. Solo che i gladiatori, direte voi, erano costretti, il fotografo no. Giusto. Quella del fotografo (sempre ammesso che avrebbe potuto fare qualcosa!) è stata una scelta. Ma cos’è che ha “costretto” l’uomo del New York Post a scegliere per la foto?

Non c’è niente da fare: quando nella convulsa agitazione di una situazione drammatica, nel bruciare rapido di un attimo, occorre buttare il cuore da qualche parte, di qua o di là, il cuore finisce dove abitualmente sta. Dove è stato educato a stare. Ed inseguirà quello che è stato educato ad inseguire. E darà o prenderà quello che ha imparato a dare o prendere. Il fotografo è stato costretto a seguire il suo “cuore”. L’istinto del business, il bisogno di sopravvivere nel suo business, la consapevolezza di quella sinistra attrazione che la gente ha per ciò che è irragionevolmente violento ha dettato i suoi passi. Non è detto che noi siamo meglio, sebbene, probabilmente, abbiamo ricevuto dalla vita molto di più di quest’uomo diventato l’involontario protagonista più tragico della storia. 

Io non ho comprato il New York Post e non ho voluto guardare il video che è un po’ dappertutto. Ma non ho potuto fare a meno di pensare a tutte le volte nella mia giornata in cui il mio cuore sceglie di “scattare foto” piuttosto che “allungare una mano”. E non posso fare a meno di pensare a quel fotografo che sicuramente si starà chiedendo perché gli è capitato tutto questo. Forse perché anche il suo cuore si rianimi. Ki Suk Han non tornerà a casa, il folle neanche. Speriamo che il fotografo ce la faccia.