Prima che cominciasse la durissima terapia per curare il “debito sovrano” greco (150mila licenziati entro il 2015, via le tredicesime, abbassato a 500 euro il salario minimo secondo l’ultima manovra correttiva), sarebbe stato impensabile assistere a scene come questa: manifestanti in piazza Syntagma che bruciano una bandiera tedesca accanto a una con la croce uncinata davanti al monumento del milite ignoto. Come a dire che in Grecia è in atto una nuova occupazione, dopo quella nazista della seconda guerra mondiale, una delle più brutali del conflitto.



Un gesto estremo, certamente, ma emblematico dell’insofferenza nei confronti di frau Merkel, rea di esercitare troppe pressioni su Atene. Fino al paradosso di pretendere misure lacrime e sangue e insieme raccomandare al governo Papademos l’acquisto di armamenti per favorire l’industria bellica tedesca: clamoroso il caso dei quattro sommergibili prodotti dalla Thyssenkrupp, lo scorso marzo graziosamente ridotti a due per 1,3 miliardi di euro (ma nel 2012 il budget greco per le spese militari supererà i 7 miliardi, la gran parte, guarda un po’ il caso, a favore di commesse tedesche e francesi).



La tensione tra i due paesi sembra aver raggiunto il livello di guardia del maggio 2010, quando i giornali greci urlarono al “nazismo finanziario” e l’allora vicepremier Theodoros Pangalos, indispettito per l’atteggiamento di Berlino, ricordò che negli anni quaranta “i tedeschi hanno trafugato l’oro greco che era nella nostra banca centrale e non l’hanno più restituito… almeno dicessero grazie!”.

A scatenare la polemica fu l’edizione tedesca del settimanale Focus che ritraeva in copertina la foto della Venere di Milo col dito medio alzato e un titolo inequivocabile: “La Grecia ci deruba del nostro denaro? Truffatori nella famiglia dell’euro”.



Da allora la guerra di stereotipi è proseguita con vignette, articoli e manifesti dove per una volta è la Germania a vestire i panni del debitore moroso, come ha ricordato il sindaco di Atene Nikita Kaklamanis: “Signora Markel, siete voi a essere in debito con la Grecia! Ci dovete 70 miliardi per le rovine che ci avete lasciato!”.

Il riferimento è al calcolo dei danni finanziari inflitti dal Reich pubblicato dal settimanale tedesco Die Zeit. Un conto mai saldato, visto che l’accordo di Londra del 1953 rinviava il regolamento delle riparazioni di guerra a quando la Germania si sarebbe riunificata. E un nuovo trattato firmato nel 1990 ha chiuso definitivamente la questione dei risarcimenti.

Ma non è solo un problema di soldi, sottolinea l’ex partigiano comunista Manolis Glezos, personaggio leggendario che nel 1941 si arrampicò sull’Acropoli e strappò la bandiera nazista per sostituirla con quella greca, dando così il via alla resistenza. Alla vigilia dei novant’anni, Glezos non ha rinunciato a partecipare ai durissimi scontri di domenica scorsa, finendo all’ospedale.

Il sentimento antitedesco si coagula intorno a un simbolo dell’orrore come Distomo, piccolo villaggio a 25 km da Delfi, la “Marzabotto greca”: 218 persone trucidate dai nazisti, in gran parte donne, anziani e bambini, il 10 giugno 1944, sei giorni dopo lo sbarco in Normandia. Uno dei massacri più efferati dell’ultima guerra senza nessuna Norimberga per quei carnefici e nessun risarcimento per i parenti delle vittime perché l’eccidio fu considerato una “normale operazione di guerra”.

Una spina nel cuore dell’orgoglio nazionale ellenico. Nel 2000 la giustizia greca ha condannato la Germania a risarcire sopravissuti e parenti con 28 milioni di euro. Davanti al no tedesco i giudici hanno disposto il pignoramento del Goethe Institut di Atene, provvedimento bloccato dal governo greco per non compromettere le relazioni diplomatiche con un potente partner comunitario. Le vittime hanno allora fatto ricorso ai tribunali italiani. Finché nel gennaio 2011 è stato l’ex premier George Papandreou a ricorrere all’Aja a fianco dell’Italia per ottenere un indennizzo. Lo scorso 3 febbraio l’alta corte ha dato ragione a Berlino in nome dell’“immunità statale” davanti a tribunali stranieri.

Mettere insieme i morti del nazismo con i miliardi da versare alla Grecia per impedirle la bancarotta è senz’altro un’equazione oscena. Ma forse i tedeschi farebbero bene ad ascoltare il monito del ministro delle finanze Evangelos Venizelos: “Chiunque imponga a un popolo di scegliere tra l’aiuto finanziario e la propria dignità ignora gli insegnamenti della storia”.

Il pensiero corre al 1931, quando una Germania sull’orlo della bancarotta non era più in grado di far fronte al pagamento degli interessi e delle rate sull’enorme debito estero. Berlino aveva perduto ogni credibilità davanti ai creditori e il presidente della Banca centrale si vide costretto a vincere la sua paura di volare per fare spola tra le capitali europee in una drammatica corsa contro il tempo alla ricerca di una linea di credito. Quell’anno al tracollo tedesco contribuì non poco l’intransigenza della “virtuosa” Francia che si rifiutò di soccorrere le “cicale” teutoniche, colpevoli di aver anteposto la crescita dei consumi al pagamento delle riparazioni di guerra. Sappiamo tutti come andò a finire, con un partito nazionalsocialista che proprio in quei mesi cominciava la sua ascesa politica.

Oggi Berlino sembra aver dimenticato le umiliazioni patite allora: ripete con ostinazione il mantra dell’austerità con l’unica preoccupazione di erigere un “firewall”, un muro antifuoco sufficientemente solido, come estrema difesa dell’euro dall’incendio greco.

A pesare sono i troppi torti di Atene: i conti truccati del bilancio statale (sia pure con qualche aiutino di potenti istituti bancari, leggi Goldman Sachs), l’occasione sprecata delle Olimpiadi 2004 (che hanno fatto cambiare faccia al paese, ma con costi mostruosi: 8,9 miliardi di euro, il 4% del reddito nazionale), l’alto tasso di corruzione ed evasione fiscale, il numero insensato degli impiegati pubblici (si parla di un milione di persone).

Eppure nei corsi e ricorsi storici certe miopie possono essere fatali. E questa volta, di fronte agli esiti disastrosi delle politiche della troika e alla tentazione di far prevalere gli egoismi nazionali, in gioco potrebbero esserci le sorti stesse del progetto europeo.

 

(Francesco Esposito)

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