La primavera araba non ha messo solo in discussione, come oramai è ben noto, gli equilibri interni di molti paesi dell’area mediterranea e mediorientale ma, e la cosa forse ci intessa ancor di più, ha riaperto una partita di cui credevamo di conoscere già le sorti: quella per il Mediterraneo e per le sue risorse (energetiche in primis). I regime change dell’area, e le rivolte ancora in corso, stanno inevitabilmente ridisegnando equilibri di partnership che sembravano consolidate, scomponendo e ricomponendo il complesso puzzle mediorientale a gran velocità.



Nella sfida per il Mediterraneo, dunque, nuovi giocatori sono pronti a scendere in campo, con il rischio di relegare in panchina i vecchi protagonisti. Per dirla in altri termini, gli Stati Uniti, e soprattutto l’Unione europea, dovranno attuare un profondo restyling, se non una vera e propria riforma, delle politiche mediterranee per non uscire sconfitti dai giochi. Resta dunque da capire quale potrebbe essere la strategia migliore da mettere in campo.



E’ evidente che la partita più importante è quella della ricostruzione politica, sociale ed economica di molti paesi dell’area, una sfida che, inutile negarlo, si gioca a suon di aiuti finanziari. E non è certo difficile comprenderne il motivo: da stime recenti del Fondo monetario internazionale risultano dati piuttosto preoccupanti per alcuni dei paesi core delle rivolte arabe, Siria, Libia, Egitto e Tunisia in primis. E’ pur vero che, raramente, alle rivoluzioni politiche corrisponde un’immediata ripresa economica, ma è anche vero che non si può restare indifferenti davanti ai dati del Fmi: la Tunisia, nel 2011, avrebbe totalizzato una crescita nulla (contro i tre punti percentuali del 2010). Stessa sorte per il Pil egiziano con un valore che si aggira intorno all’1%, ben poca cosa rispetto al 5,3% dello scorso anno. Per nulla migliore il destino della Libia, per cui si parla di una possibile contrazione del Pil di oltre il 50%. Più difficili, vista l’incertezza della situazione politica, ma sicuramente non meno funeste le previsioni per il regime di Assad. La contrazione economica potrebbe aggirarsi intorno ai 2 punti percentuali, senza contare le possibili ulteriori battute d’arresto che potrebbero derivare da eventuali misure restrittive da parte della comunità internazionale.



In un quadro del genere è plausibile credere che le risorse che gli attori internazionali saranno in grado di mettere in campo costituiranno l’ago della bilancia delle future partnership regionali.

E parlando di risorse finanziarie, non possiamo non tenere in considerazione il possibile ruolo dei Paesi del Ccg – Gulf Cooperation Council che, con un tasso di crescita di circa 7,8 punti percentuali, nel 2011, hanno acquisito un notevole potere economico e finanziario, non solo sul piano mediorientale ma anche su quello globale. Non va dimenticato, poi, che, negli ultimi anni, gli Stati del Golfo hanno superato l’Ue e gli Stati Uniti quali principali investitori nei Paesi arabi del Mediterraneo.

Ora, non solo i membri del Ccg hanno, in linea generale, evitato il pericolo delle rivolte arabe, ma anzi ne hanno beneficiato grazie ai rincari del greggio, in parte provocati dalla stesse rivolte. Con i maggiori introiti della rendita petrolifera questi potranno non solo investire a livello interno, ma anche guardare oltre i propri confini, verso i vicini regionali. Non è certo un caso se lo scorso dicembre gli Stati del Golfo hanno annunciato l’istituzione di un fondo di 5 miliardi dollari per finanziare piani di sviluppo in Giordania e Marocco. Inoltre, il 10 marzo 2011 i ministri degli esteri del Ccg hanno deciso di costituire un fondo speciale di 20 miliardi di dollari, da distribuire su 10 anni, per aiuti allo sviluppo destinati, in parti uguali, al Bahrein e all’Oman, membri essi stessi del Ccg ma meno ricchi degli altri, ed entrambi colpiti da ondate di proteste. Si tratta di iniziative di indubbio valore strategico-politico, finalizzate sia ad aumentare la coesione interna sia a ricercare nuovi alleati affidabili nella regione. Insomma, i ricchi stati del Ccg hanno grandi ambizioni: scrollarsi di dosso definitivamente l’immagine di semplice attore sub-regionale, allargando la propria influenza ben al di là dei propri “confini”.

Guardando poco più a nord, c’è un altro sfidante che potrebbe presentarsi sul campo. Si tratta della Turchia di Erdogan che, con la già collaudata dottrina della profondità strategica, non ha mai fatto segreto delle proprie ambizioni mediterranee. Se si consolidasse il progetto turco del “mercato comune mediorientale”, formato da Turchia, Siria, Libano e Giordania e al quale, secondo alcuni analisti, potrebbe in futuro aderire anche l’Egitto, l’assetto geo-economico della regione potrebbe notevolmente cambiare, favorendo, per gli attori che ne faranno parte, l’acquisizione di un ruolo certamente strategico negli assetti globali. Questo senza contare il notevole appeal che il “modello turco” esercita sulle nuove leadership mediterranee e che potrebbe aprire ulteriormente a Istanbul la “porta della sponda sud”.

Uscendo dal contesto regionale, non vanno dimenticati attori altrettanto rilevanti e non certo meno “disponibili”. Nell’area operano già, con crescenti interessi economici e geo-politici, le potenze “emergenti” del cosiddetto gruppo dei Brics. La Cina, in particolare, non ha mai nascosto il suo interesse  mediterraneo, e con le sue riserve valutarie di circa 3mila miliardi di dollari potrebbe finanziare, senza grandi sacrifici, prima il salvataggio e poi l’eventuale rilancio dell’Egitto, della Tunisia, della Libia e di altri importanti possibili partner, fornendo loro i prodotti e le infrastrutture di cui hanno bisogno. In cambio avrebbe la possibilità di preservare e aumentare le forniture energetiche e la sicurezza delle rotte marine. Insomma, uno scambio tutto sommato vantaggioso.

La Cina non si è certo fatta cogliere impreparata dalla primavera araba e già nell’aprile scorso una delegazione cinese, composta da uomini d’affari e banchieri e guidata dal viceministro per il commercio Fu Ziying, ha visitato l’Egitto e la Tunisia. In particolare, al Cairo la delegazione cinese ha firmato un accordo di cooperazione tecnica ed economica che prevede la fornitura all’Egitto di aiuti per circa 6 milioni di euro, mentre in Tunisia sono stati predisposti aiuti a fondo perduto per la realizzazione di progetti per un valore complessivo di circa 4 milioni di euro. Tutto fa dunque presupporre l’inizio di una più incisiva e cospicua cooperazione.

In tutto questo rinnovato fermento viene spontaneo chiedersi: e l’Europa sta a guardare? La risposta non è semplice e di certo non può che tenere conto dell’attuale deficit economico che attanaglia i paesi cardine dell’Unione. Il “piano Marshall per il Mediterraneo”, stavolta, deve scontrarsi con i limiti di un’Europa in crisi di liquidità, eppure la questione degli aiuti finanziari e delle altre forme di assistenza ai paesi del Medio Oriente e del Nord Africa può offrire all’Ue l’occasione di ristabilire, su basi completamente nuove, i rapporti economici e finanziari (ma anche e soprattutto  politici e culturali) con la sponda sud.

La commissione europea, nel settembre 2011, ha elaborato la sua “new response to a changing Neighbourhood”, prevedendo un primo “Spring Programme”, che mira a supportare i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente con interventi modellati sulle esigenze delle diverse economie e realtà sociali, attraverso lo stanziamento, per il biennio 2011-2012, di  risorse pari a 350 milioni di euro. Chissà però se, a fronte dei nuovi attori in gioco, questo sarà sufficiente a tenere aperta la partita europea per il  Mar Mediterraneo.