Dicono che non l’hanno fatto apposta, che si è trattato di una semplice svista. Martedì, nella base militare di Bagram, era stata assunta la decisione di mettere al rogo del materiale islamico. Erano state date alla fiamme anche alcune copie del Corano. John Allen, comandante della missione Nato in Afghanistan, ha chiesto scusa al «nobile popolo d’Afghanistan», giurando che non vi era intenzionalità alcuna di recare oltraggio al sentimento religioso dei cittadini. Ma il danno, intanto, è stato fatto. Ci sono già cinque vittime e una ventina di feriti, mentre centinaia di persone stanno mettendo a ferro e fuoco alcune zone del Paese. In particolare, a Jalalabad, nell’est dell’Afghanistan, e a Kabul, i manifestanti stanno prendendo di mira i compound dei contractor stranieri, a cui hanno appiccato degli incendi. Sempre nella capitale, circa 500 afghani stanno manifestando nei pressi del Parlamento all’inno di “morte all’America”, mentre un migliaio di studenti ha paralizzato le principali arterie cittadine. Si stanno verificando episodi di violenza anche a Herat. Abbiamo chiesto a Fabrizio Castagnetti, Generale ed ex capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, un commento su quanto sta accadendo.



Che idea si è fatto della vicenda?

Comunque sia andata, posto che si sia trattato di un errore (ma, per quanto ne sappiamo al momento, si potrebbe trattare anche di una messa in scena da parte dei terroristi), non è la prima volta che i soldati americani incappano in disattenzioni del genere.

È ammissibile, in terra afghana, che una forza militare internazionale si macchi di una distrazione del genere?



No non lo è.

Solo pochi mesi fa, lo scandalo del video con i marines americani che orinavano su dei cadaveri afghani; nel 2004, in Iraq, le torture nel carcere di Abu Ghraib. Si direbbe che gli Usa ci hanno preso l’abitudine a finire al centro delle polemiche…

Il problema è che il militare americano medio è incolto. A nessuno con un minimo di conoscenza del Paese sarebbe mai passato per la testa di bruciare un Corano. Molti soldati americani, inoltre, sono stranieri, per lo più messicani, che fanno il servizio militare per ottenere più facilmente la cittadinanza. Del resto, non solo il soldato, ma anche l’americano medio ha delle oggettive carenze culturali. Specialmente per quanto riguarda la storia che, a scuola, è insegnata e appresa in maniera estremamente superficiale. Il che, per un Paese che vuole giocare il ruolo di superpotenza ha un handicap oggettivo. Ma c’è dell’altro.



Cosa?

Il cittadino statunitense, di norma, non è capace di vivere fuori dal proprio Paese, è privo di capacità di adattamento. E non parlo solo del Medio Oriente. In Germania, ad esempio, ci sono ancora circa 50 mila soldati Usa che vivono nelle basi militari presenti nel Paese. Si tratta di vere e proprie enclave, città in miniatura che non hanno niente a che fare con il contesto in cui sono collocate.

 

Noi italiani abbiamo mai compiuto simili passi falsi?

 

Guardi, si figuri che il nostro “errore” più grande è stato quello di costruire una piccola chiesetta nella nostra base a Herat; al che la popolazione locale ha un po’ digrignato i denti, ma niente di più.

 

C’è una specificità italiana?

 

I nostri soldati, anzitutto, mediamente sono dotati di una certa cultura. Sono quasi tutti diplomati, molti laureati. Dispongono, inoltre, di qualità innate, analoghe a quelle dei nostri vecchi migranti: sono aperti, capaci di dialogare con tutti, si adeguano alla cultura del Paese in cui vanno, la rispettano e ne apprendono le regole. Le racconto un aneddoto.

 

Prego.

 

Quando siamo venuti via dall’Iraq, la nostra provincia era l’unica pacificata. Dopo il rientro, gli inglesi mi assillarono per mesi perché andassi a Londra a spiegare come l’Italia avesse organizzato in modo così esemplare il rientro del suo contingente; un’operazione alquanto complicata. Si immagini di mobilitare, insieme a dei mezzi pesanti, migliaia di soldati che devono arrivare, via terra, in Kuwait, per poi imbarcarsi; con il rischio costante di attentati terroristici e le difficoltà nell’interloquire di volta in volta con le autorità locali. Insomma, gli inglesi volevano sapere quali operazioni fossero intercorse tra i massimi vertici politici e militari – ministero degli Esteri, della Difesa e tutti gli altri ministeri interessati –  dei rispettivi Paesi.

 

E quali sono state queste operazioni?

 

Non ce ne sono state. Avevamo fatto tutto io e i miei uomini; il mio comandante aveva pianificato ogni cosa, prendendo contatti sul terreno con le autorità irachene senza scomodare accordi politici al massimo livello. Ancora oggi, gli inglesi non ci credono. È solo uno dei tanti esempi che dimostra come i nostri militari italiani siano in grado di entrare in rapporto diretto con le popolazioni con cui hanno a che fare.