Per tutta la giornata di ieri si sono succeduti in Afghanistan manifestazioni e incidenti. Il motivo: il rogo di materiale religioso tra cui alcune copie del Corano da parte dei soldati americani di stanza nella base di Bagran. Materiale dato alle fiamme perché usato dai prigionieri talebani per scambiare informazioni, ma che ha scatenato le proteste della popolazione, esplose in violenti incidenti che a tutt’oggi hanno prodotto una quindicina di morti, tra cui due soldati statunitensi uccisi da un militare afgano. E le proteste cominciano a sfociare anche in altri Paesi islamici. Una situazione pericolosa, che neanche le scuse personali del presidente degli Stati Uniti Obama al popolo afgano è riuscita  a placare. Oltre alla manifestazioni nella capitale Kabul, che hanno preso di mira il palazzo presidenziale, è stato assalito il consolato americano a Herat. E’ qui che si è registrato il maggior numero di vittime tra i manifestanti.  Ieri nel tardo pomeriggio l’ambasciata americana nella capitale ha chiuso i battenti per paura di assalti. Per Toni Capuozzo, conduttore del programma “Terra!” e vicedirettore del Tg5, contattato da IlSussidiario.net, una situazione esplosiva che testimonia le enormi difficoltà che la missione militare occidentale in Afghanistan non ha mai saputo risolvere. “Il falò del Corano” dice Capuozzo “è la spia di una difficoltà culturale che quasi sempre le forze armate americane hanno nel rapportarsi alla storia alle tradizioni alla cultura di un luogo. E anche la spia di un bilancio di una missione lunghissima che la Nato non poteva perdere, ma che non si può neanche dire che abbia vinto”.



Capuozzo, come è possibile che i militari americani dopo tanti anni di permanenza in Afghanistan abbiano fatto un errore così clamoroso?

Quello che sta succedendo in Afghanistan in queste ore è chiarissimo nella sua dinamica e nelle sue conseguenze. Entrambe gli aspetti della questione e cioè il rogo del Corano e le reazioni violente della popolazione fanno parte di un quadro preciso.



Ci spieghi questo quadro.

Il falò del Corano è la spia di una difficoltà culturale che quasi sempre le forze armate americane hanno nel rapportarsi alla storia, alle tradizioni e alla cultura di quel particolare luogo dove finiscono per trovarsi. E’ quello cioè che a volte distingue ad esempio il militare italiano, un fatto di formazione culturale.

Cosa contraddistingue il nostro soldato rispetto a quello americano?

Per abitudine il nostro militare è più attento a portare rispetto alla cultura locale, più attento a trovare i canali di comunicazione, fosse solo nell’imparare alcune parole nella lingua locale. Questo deriva da una storia di un Paese come l’Italia che è un Paese molto composito nella sua storia . Sono insomma caratteristiche che fanno parte del bagaglio culturale italiano.



E il soldato americano?

Il militare americano medio, anche se qui è coinvolto almeno anche un ufficiale, è spesso un giovanotto che si troverebbe a disagio anche a New York perché città troppo europea. Ha insomma una difficoltà antropologica a rapportarsi agli altri.

Un problema non da poco, pensando alla realtà delicata di un Paese come l’Afghanistan.

C’è anche una problematica legata al tipo di addestramenti militari. Gli italiani hanno dimostrato in questi anni una interazione e una integrazione con gli afgani molto più alta di quanto non abbiano fatto gli americani. Questi si considerano in un certo senso dei cash despenser, dei finanziatori, ma l’attività civile e tutte le sfumature della politica afgana fatta di clan e di famiglie vengono colte meglio dagli italiani, più abituati a distinguere le sottigliezze della politica. Tutto questo ha a che vedere anche con le tattiche e gli addestramenti militari.

Facciamo qualche altro esempio di come gli americani conducono la missione in questo Paese.

Ma basti pensare all’uso estremo delle tecnologie: la guerra dall’alto, i droni che non chiedono il sacrificio di personale militare, ma che molto spesso fanno errori e comportano vittime civili.

Colpisce che un soldato afgano abbia ucciso l’altro giorno nel corso delle manifestazioni dei soldati americani, che in fondo sono suoi alleati.

Non è una novità. Lo sappiamo anche noi italiani che siamo rimasti “vittime” di un fuoco che pensavamo amico. Ci sono stati episodi di soldati afgani che hanno rivolto le armi contro istruttori e colleghi. E’ un ulteriore sintomo delle difficoltà di una non comunicazione fra militari del contingente occidentale e i militari afgani. C’è una barriera culturale non facile da varcare.

E la reazione afgana al falò del Corano? Qualcosa di già visto, no?

Non è una novità. Lo sappiamo anche noi italiani che siamo rimasti “vittime” di un fuoco che pensavamo amico. Ci sono stati episodi di soldati afgani che hanno rivolto le armi contro istruttori e colleghi. E’ un ulteriore sintomo delle difficoltà di una non comunicazione fra militari del contingente occidentale e i militari afgani. C’è una barriera culturale non facile da varcare.

E la reazione afgana al falò del Corano? Qualcosa di già visto, no?

Sì, ed è anche questa una spia di un atteggiamento storico che è una reazione allo straniero, una presenza che è non si è accompagnata con una crescita sufficiente nei rapporti e alla prima occasione esplode. Inoltre testimonia un rapporto con i simboli religiosi molto diverso dal nostro. Noi siamo abituati a vedere la pubblicità in televisione di quelli che bevono il caffè in Paradiso e questo non ci offende. E’ la testimonianza di un disinteresse verso la religione o una nostra maturità civica? E’ un discorso complesso che non è qui da fare, che il nostro sia cioè un disincanto o una dimenticanza.

La reazione islamica è però sempre o quasi eccessiva, non le sembra?

Assolutamente, si tratta di abitudini a cui basta una vignetta su un giornale  per incendiare gli animi. Anche questo non è una novità, ma spia di un rapporto tormentato coi simboli e con la religione.

I tedeschi, forse alla luce di questi ultimi incidenti, hanno annunciato ieri che fra un mese se ne andranno dall’Afghanistan. Che quadro si prospetta?

Ovviamente i calendari dei ritiri militari sono sempre molto complessi. Obama stesso ha cercato di fissare una strategia di uscita, i primi sono stati i francesi tanto che dalla loro “fuga” si è presa la denominazione di “sindrome francese”. Tutti vorrebbero che il ritiro fosse lento, guidato e con un bilancio felice. Il dubbio che abbiamo però è se l’Afganistan che verrà lasciato dalla forza militare occidentale sarà un Afghanistan migliore di quello che era prima.

Ci potrà essere il rischio che i talebani riconquistino il potere?

E’ un rischio che va affrontato, perché il bilancio vero che uno deve fare è cosa rimane di questa missione. Si è affrontata una guerra e un dopoguerra che la Nato non poteva permettersi di perdere ma che non sembra che sia riuscita a vincere. Questo perché rimane un tale intreccio complicatissimo di relazioni militari e di costruzione di una società democratica che non appare assolutamente chiaro. La domanda da farsi è allora: siamo stati in grado di aiutare gli afgani a fare da soli? Al momento non è possibile rispondere.

Eppure si sono impiegati quasi dieci anni…

Il governo centrale è fragile e corrotto, non ha guidato le trasformazioni che doveva fare. Ma il solo fatto che si ammetta una durata oltremisura, è emblematico. Solo la missione in Libano che dura da trent’anni sotto l’egida dell’ONU batte quella in Afghanistan. e il Libano è sempre sull’orlo di una nuova guerra.