La Siria è chiamata alle urne mentre non si arresta il bagno di sangue in tutto il Paese. Bashar Assad ha organizzato un referendum sulla nuova Costituzione, che intende porre fine al monopartitismo del Baath, espressione del regime, pur mantenendo i poteri di cui attualmente gode il presidente. Sono 14 milioni i siriani ad avere diritto al voto, ma i partiti d’opposizione hanno chiesto ai loro sostenitori di astenersi in massa. La principale richiesta dei ribelli sono infatti le dimissioni immediate di Assad. Domenica intanto nella città di Homs si sono contate 13 vittime, di cui nove civili. A diffondere questi dati, la cui esattezza del resto è sempre molto incerta, è stato l’Osservatorio siriano dei diritti umani (OSDH), che nella giornata di sabato aveva calcolato 94 morti di cui 24 civili e 23 soldati del regime. Ilsussidiario.net ha intervistato Luigi Geninazzi, editorialista e inviato di “Avvenire”, per chiedergli di commentare l’attuale fase del conflitto siriano.



Geninazzi, qual è il significato di questo referendum che si propone di porre fine al partito unico in Siria?

L’impressione è che arrivi un po’ tardi, anche se sulla carta l’intenzione è più che lodevole. Se uno prescinde dal clima di violenza, di sangue e di orrore che c’è in Siria e prende in mano il quesito del referendum, potrebbe sembrare una grande novità. Un Paese dittatoriale, retto dal partito unico del Baath, apre la porta al multipartitismo. Il problema è il grave ritardo con cui arriva questa proposta da parte del presidente Assad. Se ci si fosse arrivati un anno fa, poteva essere davvero un punto di svolta. Oggi invece vediamo che la partecipazione sarà molto ridotta, perché tutte le varie sigle dell’opposizione hanno annunciato il boicottaggio. Il referendum sembra del resto una mossa d’astuzia che non riuscirà purtroppo a cambiare la situazione.



Nel frattempo continuano i morti su entrambi i fronti, sia tra i civili sia nelle file dell’esercito regolare. Da dove nasce questa situazione di estrema violenza?

Come ho avuto modo di osservare già da alcuni mesi, in Siria è in corso una guerra civile e questo è un fatto sempre più evidente. A esserne coinvolti non sono più solo il regime da un lato e un’opposizione armata dall’altra, in quanto ormai sta diventando una guerra settaria o addirittura etnica. Chi è alawita è nel mirino dei ribelli perché è sospettato di essere perciò stesso un sostenitore del regime di Assad, che fonda il suo potere sulla dittatura di una minoranza. Chi è sunnita è considerato dal regime come un nemico o quantomeno come un simpatizzante dell’opposizione. I cristiani sono visti in questo contesto come dei sostenitori di Assad. In Siria quindi siamo davvero in presenza di una guerra civile di proporzioni tragiche, e questo spiega l’altissimo numero di morti non solo tra i civili ma anche tra i militari. Homs è il punto più tragico, il buco nero di questa guerra civile, una sorta di Sarajevo che si ripete a 20 anni di distanza.



Gli stessi Fratelli musulmani ammettono che l’esercito di Assad è ancora molto forte. Esiste davvero un’alternativa al dialogo cui questo referendum sembra aprire uno spiraglio?

E’ chiaro che la situazione si trascina ormai da un anno, anche se la sorte di Assad sembra segnata. I focolai di resistenza ormai sono diffusi in tutto il Paese e hanno raggiunto due città un tempo schierate a fianco del regime come la capitale Damasco e Aleppo. La tendenza dunque è chiara, anche se durerà più a lungo di quanto prevedeva chi era convinto che Assad cadesse nel giro di qualche settimana. Il quadro però è molto confuso perché anche l’opposizione non riesce a trovare la sua unità.

Lo si è visto venerdì a Tunisi nel corso della riunione dei cosiddetti “Amici della Siria”. Non si riesce infatti a trovare l’unità, innanzitutto al livello delle forze siriane. A Parigi è attivo il Coordinamento Nazionale Siriano, che sembra godere dell’80% del consenso dell’opposizione, ma anche su questo non abbiamo dati certi, tanto che la carta finale degli “Amici della Siria” lo definisce come “un rappresentante”, e non come “il legittimo rappresentante”. Possiamo quindi vedere una grande differenza con il CNT libico che si era insediato a Bengasi e aveva ricevuto l’imprimatur della comunità internazionale come unico rappresentante della nuova Libia. Nel frattempo non si sa che cosa sta avvenendo nel regime di Assad, perché le diserzioni continuano e non si sa quindi se il suo Esercito sia veramente compatto.

Come valuta il ruolo della comunità internazionale in questa fase della crisi?

Anche il fronte della comunità internazionale è molto frammentato e il risultato è che non si sa bene come intervenire. Da un lato l’Onu esclude un intervento militare e dall’altra si divide su varie opzioni. Qualcuno pensa a un intervento umanitario, che però è difficile da realizzare, qualcun altro vorrebbe armare i ribelli, che di fatto attraverso forme sotterranee ricevono già armi e munizioni da Paesi come Qatar e Arabia Saudita. Ci sono inoltre numerose tendenze anche all’interno dei Paesi arabi, perché se Arabia Saudita e Qatar spingono per una presa di posizione forte, dall’altra ci sono altri Paesi a cominciare da Iraq e Algeria che frenano. In definitiva, quella siriana è una situazione veramente caotica e frastagliata.

(Pietro Vernizzi)