L’ultimo Consiglio europeo ha approvato il testo finale del nuovo patto di bilancio: un accordo per la stabilità, il coordinamento e la governance dell’Unione economica e monetaria. L’Europa ha ora nuove regole di rigore comuni sui conti e sulla crescita. L’intesa sul nuovo “Fiscal compact” è stata raggiunta, dopo un negoziato piuttosto serrato, solo da 25 stati membri: oltre che la Gran Bretagna, la cui defezione era già stata annunciata da tempo, a sorpresa anche la Repubblica Ceca non ha firmato l’accordo.
Il pareggio di bilancio diventa una “regola d’oro”: accettando il nuovo Patto, i 25 paesi hanno accettato di inserire l’obbligo dell’equilibrio dei conti nelle Costituzioni nazionali o in leggi equivalenti e si sono impegnati a fare scattare sanzioni “semi-automatiche” in caso di violazione. I paesi che hanno un debito superiore al tetto fissato da Maastricht del 60% sul Pil si sono impegnati, inoltre, a un piano di rientro pari a 1/20 l’anno, tenendo però conto – come chiesto dall’Italia – dei fattori attenuanti previsti dal pacchetto di disposizioni sulla nuova governance economica.
Quella della crescita è una questione da risolvere una volta per tutte. Da mesi prendiamo atto fiduciosi dell’imminenza di misure che vadano a offrire un importante incentivo alla crescita economica europea. Mai però si è passati ad azioni concrete. Eppure all’interno dei governi dei paesi membri vi sono alcuni tra i migliori economisti del mondo. Non posso credere quindi che sia la mancanza di illuminazioni o l’incompetenza a bloccare la nostra azione per la crescita.
È il momento di tirare fuori le idee. La strategia europea per la crescita è contenuta in quei riferimenti dei risultati del Consiglio che rimandano – come è giusto – alle proposte che farà la Commissione europea. È giusto sostenere la Commissione in questo compito. In questo senso, però, occorre innovare il processo decisionale, aprendo in maniera totale al contenuto delle commissioni parlamentari. Avremmo non solo più trasparenza, ma anche più efficacia.
La nota più amara scaturita dal Consiglio è il fatto che l’accordo sia stato firmato da 25 Stati membri e non da 26, come era stato previsto da tutti. Non ci possiamo permettere un progetto di integrazione europea che perde paesi membri a ogni giro di boa. Perché la conseguenza di questa impostazione sarebbe non una più forte e più politica Europa dei paesi sopravvissuti, ma sarebbe il tramonto, nelle nostre opinioni pubbliche, della persuasività dell’idea stessa di Europa. Lo sviluppo e la crescita globale si possono ottenere solo con la crescita comune nello sviluppo complessivo dell’Unione europea per superare appunto i protezionismi e le particolarità nazionali.
È un rischio molto grave quello a cui andiamo incontro. Francia, Italia e Germania devono farsi carico di questo momento e attuare una moral suasion continua. Dobbiamo nello stesso tempo avere la capacità di non escludere coloro i quali volontariamente si mettono ai margini.Sono ancora troppe le spinte nazionaliste in Europa, sono ancora in troppi coloro i quali dimenticano che 65 anni di pace e sviluppo per l’Europa sono l’eccezione e non la regola della nostra storia. Oggi è necessario farlo percepire a chi tra i capi di governo è tentato di rincorrere più il consenso di un’opinione pubblica incerta che non la sensatezza e la bellezza del progetto europeo.
La crisi economica deve favorire quella solidarietà tra i Paesi che sarebbe più che mai necessaria per mettere alla prova il ruolo positivo dell’Unità europea. Non possiamo consentire che la crisi faccia trionfare l’egoismo e resusciti antichi nazionalismi, come quello del Regno Unito, che ha scelto l’isolamento rinunciando al suo ruolo naturale in Europa. Non possiamo consentire agli altri Stati di approfittare della situazione per ritornare a un meno impegnativo e superato metodo intergovernativo.