MOSCA – Sabato 4 febbraio, qui a Mosca è sembrato di vivere una giornata storica, di quelle che lasciano il segno. Due grandi manifestazioni in contemporanea con grande movimento di masse: una al Parco della Vittoria, lungo il Kutuzovskij prospekt, l’altra in piazza Bolotnaja, dopo una marcia lungo la via Bolshaja Jakimanka. La prima a favore di Putin (“Putin è il nostro presidente!” dicono gli striscioni), l’altra contro di lui (“Russia senza Putin!” scandisce la gente). Siamo andati a vedere direttamente, per capire se non altro chi c’era, com’era l’atmosfera.



A mezzogiorno, nel metrò, una grossa folla si incanala verso la fermata del Parco della Vittoria, vagoni pieni, molta gente di mezz’età a gruppi. Il clima è allegro, ridanciano, si sente qua e là ripetere “compagni, non spingete!”. Forse qualcuno pensa ai tempi delle grandi adunate di una volta. Sembrano tutti contenti e soddisfatti, che dire? Forse ci credono… qualcosa li attira verso un potere forte che gli dà ancora un senso di appartenenza.



Ma neanche a farlo apposta, a un tratto una signora accanto a noi estrae dalla borsetta dei fogli e cerca, nella calca, di fare l’appello; chiama anche per telefono qualche assente. La folla aumenta. Quando arriviamo, il percorso dal vagone del metrò alla strada (due corridoi e una scala mobile) richiede 40 minuti, una massa davvero impressionante sciama sul grande piazzale dove c’è il palco. Si vedono molte bandiere tutte uguali, slogan stampati in serie; ci sono anche i cosacchi (“i cosacchi sono il sostegno della Russia”) e l’Unione dei cittadini ortodossi con le icone; qua e là, qualche striscione contro gli Usa e la “rivoluzione arancione”. È tutto molto tranquillo, sembrerebbe quasi una scampagnata se non ci fossero 20 gradi sottozero, qualcuno si tiene su bevendo vodka; ma l’atmosfera tra la gente contrasta con il tono e le parole dell’oratore sul palco che sforna frasi minacciose contro l’America che vuole fare da padrona in casa altrui, e contro l’arancione, un colore schifoso, dice, che sembra “la pipì di un cane sulla neve”. Uno stile pesante, d’altri tempi. Mentre lo stesso oratore tuona: “Qualcuno ha detto che vi hanno mandato qui per forza!”, delle signore davanti a noi ridono e assentono: “Eh sì, è proprio così”.



Per districarci in fretta dalla folla (che già alle 13,30 sta sciamando verso casa) fermiamo una macchina. Dentro c’è un’altra ragazza che ci chiede come mai siamo andati alla manifestazione. “Per vedere – diciamo, – E lei?” “Per forza, sono un’impiegata statale”.

Seconda tappa: via Bolshaja Jakimanka, sono le 14 e la gente ormai è già tutta sulla piazza Bolotnaja; ci affrettiamo e arriviamo al fiume, dove ci accoglie una specie di caravanserraglio di cartelloni fatti in casa, che fanno a gara per la battuta migliore: “Putin scendi dalla barca”, “Puter kaputt”, “il pesce marcisce dalla testa”. Ormai la manifestazione si sta concludendo, ma sicuramente c’è meno folla. Molti, ci dicono, se ne sono già andati perché gli interessava soprattutto esserci, la marcia come segno di presenza, non i discorsi politici a seguire. 

Una cosa unisce la piazza della Vittoria e la Bolotnaja: sono tutti “contro”: contro Putin, o contro quelli che sono contro Putin. Bisogna che la differenza, se c’è, venga fuori.

Qui in piazza Bolotnaja c’è veramente di tutto, bandiere russe, bandiere bianche del movimento “per elezioni oneste”, bandiere rosse, persino il Che Guevara. È chiaro che è una folla eterogenea, unita dal desiderio di manifestare il proprio desiderio di onestà, la propria dignità, ma che per il resto la pensa nei più svariati modi. È un dato di fatto, ha scritto sul suo blog Aleksandr Archangelskij il 3 febbraio, “non siamo tutti della stessa idea, siamo soltanto compagni di sventura. Quel che ci unisce è il desiderio di non tornare indietro agli anni 2000, solo per questo siamo pronti ad unirci, prima di tornare a differenziarci”. 

La dimostrazione si è sciolta dandosi un altro appuntamento ma, ci si chiede, il momento della piazza non può dilungarsi all’infinito, ci vuole un passo ulteriore. Sempre Archangel’skij ha affermato che è ora di “incominciare il tedioso lavoro di ricostruire la vita su nuovi principi. Il risultato non sarà eclatante, la strada sarà lunga, ma tra una vita difficile e una facile morte è meglio scegliere una vita difficile”. Una delle proposte immediate lanciate in piazza, ancora sotto il segno della passione per la presenza, è quella di presentarsi in massa come osservatori nei seggi; distribuiscono dei biglietti da compilare con la propria mail per fare i volontari. Un ottimo spunto di lavoro ma, come ha commentato giorni fa Arsenij Roginskij, dell’Associazione Memorial, bisogna veramente che diventi un lavoro, perché è un impegno serio acquisire le competenze tecniche necessarie per essere un’utile presenza nei seggi.

Questa, probabilmente, è la nuova strada che si apre. Perché, quanto ai numeri, questa volta sono dalla parte di Putin.