Dichiarando pochi giorni or sono di temere che Israele si prepari a bombardare  i siti nucleari dell’Iran nei prossimi mesi, il segretario americano alla Difesa, Leon Panetta, ha preso un’iniziativa che per il momento può venire interpretata in due modi: come monito oppure come segnale di prestabilita acquiescenza del governo di Washington a tale operazione. Già capo di gabinetto del presidente Clinton, l’italo-americano Panetta, figlio di immigrati originari di Gerace (Reggio Calabria), è un politico esperto che per lanciare questa previsione ha scelto non a caso la formula dell’intervista rilasciata al Washington Post, quotidiano che non di rado si presta a ospitare prese di posizione ufficiose del governo Usa. Resta ora da vedere, ma lo si capirà presto, quale linea assumerà effettivamente al riguardo il governo del presidente Obama peraltro nel quadro di una politica che è ormai di relativo disimpegno dal Vicino e Medio Oriente.



Nella misura in cui la partita resta solo nelle mani dell’attuale governo israeliano c’è di che preoccuparsi. Il suo premier Benjamin Netanyahu è l’uomo che durante una visita a un antico campo di sterminio nazista non esitò a dire: “Ricorderemo sempre che cosa ci ha fatto l’Amalek nazista. Non dobbiamo scordarcene  e dobbiamo essere pronti ad affrontare i nuovi amaleciti. Oggi è come il 1938, e la nuova Germania è l’Iran,  che sta preparando un nuovo Olocausto dello Stato ebraico”. In realtà l’Iran è un paese semi-sviluppato con un reddito interno lordo annuo pari a 4.741 dollari (di poco superiore a quello della Bosnia-Erzegovina tanto per fare un esempio), con industrie di base che funzionano solo grazie a tecnologie e macchinari acquistati all’estero. Il suo apparato economico è poi così squilibrato che pur essendo un grande produttore ed esportatore di petrolio deve importare benzina perché non dispone di impianti di raffinazione del greggio proporzionati al proprio consumo interno. Quali che siano le cattive intenzioni e le enormi ambizioni del suo attuale governo, paragonarlo alla Germania del 1938, che era anche allora una delle maggiori economie del mondo, è obiettivamente irragionevole.



Per questo, dicevamo, c’è di che preoccuparsi: perché le decisioni riguardo a un attacco del genere rischiano di essere nelle sole mani di un uomo che mostra di non essere affatto razionale.

Sul piano morale i propositi espressi e le invettive lanciate contro Israele dall’attuale premier iraniano Mahmoud Ahmadinejad meritano una condanna senza riserve. Sul piano effettuale della politica occorre però distinguere tra il volere e il potere. L’Iran non è assolutamente in grado di costruirsi delle armi nucleari realmente impiegabili. Può al massimo arrivare, come già l’India o il Pakistan, a produrre degli ordigni statici da far esplodere in cima a un traliccio a titolo per così dire di autocelebrazione. Un Paese che, pur avendo immense riserve di petrolio, non riesce nemmeno a prodursi da sé la propria benzina non ha in misura sufficiente le capacità scientifiche, tecnologiche e industriali che sono necessarie per sviluppare tutta l’informatica, l’avionica e la telematica necessarie per lanciare testate nucleari su bersagli lontani. Inoltre, come tutti noi, sta sotto l’ombrello del controllo planetario assoluto e incontrastato che gli Stati Uniti esercitano sulle reti di telecomunicazione dell’intero mondo.



Quindi non soltanto non è in grado di suo di diventare una vera potenza nucleare, ma ammesso e non concesso che ci riuscisse, non avrebbe alcun modo di fare uso dei suoi eventuali missili nucleari, poiché tutto ciò che vola a distanza nel mondo corre lungo canali informatici che sono degli Stati Uniti e che gli Stati Uniti possono chiudere quando vogliono. Ciò vale, notiamo per inciso, anche per Israele: senza la collaborazione tecnica de jure o de facto di Washington nessuna squadra aerea da bombardamento potrebbe volare da Israele all’Iran e ritorno.

Stando così le cose, sul piano militare, e più in generale sul piano della forza, la cattiva volontà di Ahmadinejad va di certo combattuta e sconfitta, ma solo nella misura della sua efficacia (che è relativamente modesta). Oggi come oggi, come si diceva, se gli Stati Uniti non chiudono all’aviazione israeliana i loro canali telematici, gli aerei con la stella di Davide sono tranquillamente in grado di andare a bombardare i siti nucleari dell’Iran finché vogliono, e l’Iran non può farci niente. La vittoria immediata, se ha senso parlare di una vittoria in circostanze del genere, è garantita.

Vale però la pena, per spazzar via un pericolo che non c’è, di provocare lutti,  umiliazione, rancori nel più popoloso e (relativamente) sviluppato Paese del Medio Oriente; di accendere un altro focolaio di guerra in un’area che ne ha già fin troppi; e come sempre accade in questi casi di spingere il popolo a stringersi attorno al suo governo, ottenendo così non di indebolire ma anzi paradossalmente di rafforzare Ahmadinejad? Se Netanyahu nella sua ossessione non ci pensa, speriamo che in Israele e altrove (non solo in America ma anche in Europa) ci pensino altri.

 

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