Nel poker ciascuno di coloro che è seduto intorno al tavolo verde sa molto bene che per vincere una mano, oltre alle carte distribuite dal mazziere, è fondamentale l’abilità del giocatore. È, infatti, la capacità di quest’ultimo di valutare le probabilità, di osservare il comportamento degli altri e di eseguire bluff efficaci per indurli in errore a fare la differenza nel corso di una partita. Se poi l’abile giocatore è anche assistito dalla fortuna, ci sono allora buone possibilità che riesca anche a vincere portandosi a casa il piatto.
Ormai da qualche tempo, in Medio Oriente è iniziata l’ennesima mano di una delicata e assai più lunga partita di poker, quella sul programma nucleare iraniano. Una delicata e pericolosa partita a poker da cui dipenderanno i destini del Medio Oriente. Intorno al tavolo da gioco sono seduti Iran, Israele, Stati Uniti e alcuni paesi della regione. Mentre alle loro spalle si possono scorgere gli occhi attenti e interessati – o, per molti versi, preoccupati – della Comunità internazionale. Ma sembrano soprattutto due i paesi che vogliono spingersi fino in fondo, che desiderano scoprire l’uno le carte e l’eventuale bluff dell’altro: Iran e Israele.
Gli Stati Uniti, secondo un rigoroso calcolo degli interessi, appaiono rivolti a garantire il mantenimento del già precario equilibrio del (dis)ordine mediorientale. La lunga e ancora incerta corsa verso le presidenziali di novembre, il clima di insicurezza dovuto alla crisi economica, il profondo spostamento verso l’Asia-Pacifico del centro della loro strategia geopolitica, suggeriscono all’America molta cautela. Soprattutto perché il rischio di una chiusura (totale, parziale o soltanto tentata) dello Stretto di Hormuz provocherebbe il necessario, ma certamente non auspicato, intervento della marina militare statunitense nelle acque del Golfo.
I paesi della regione mediorientale, invece, rappresentano un fronte soltanto all’apparenza coeso. Ciascuno Stato, dall’iper-attivo Qatar (con il suo braccio armato mediatico Al Jazeera) alla sorniona Arabia Saudita, dal turbolento Egitto alla bramosa Turchia, oltre a dover rispondere alle conseguenze delle rivolte arabe, persegue delle autonome linee di politica estera. L’unità d’intenti dimostrata nella ricerca di una soluzione condivisa alla drammatica situazione in Siria non deve trarre in inganno. I rispettivi interessi strategici di questi attori, che sarebbero tutti favoriti da una diminuzione della potenza iraniana, finirebbero presto per confliggere.
Un discorso a parte merita la condotta di gioco di Iran e Israele. Una condotta sempre in bilico sul crinale che divide razionalità e irrazionalità. Razionale è la volontà israeliana di non perdere il vantaggio strategico nell’essere la sola potenza nucleare del Medio Oriente. Così come altrettanto razionale appare la malcelata volontà iraniana di acquisire l’arma atomica per controbilanciare (almeno tentativamente, come ha ben mostrato su queste pagine anche Robi Ronza) il primato israeliano. Qualora l’Iran riesca a proseguire lo sviluppo del suo programma nucleare, l’ipotesi che si possa determinare una qualche forma di containment, sulla scia della contrapposizione bipolare della Guerra fredda, non è da escludere. Molto probabilmente, l’Iran userebbe la rudimentale capacità atomica soltanto per aumentare il suo status in Medio Oriente. Purtuttavia, non isolate (né, forse, avventate) sono le preoccupazioni di chi – affiancandola alla Germania hitleriana – individua nella teocrazia iraniana una notevole dose di inaffidabilità politica. Irrazionale, invece, è la forte impronta “escatologica” che entrambi i paesi mostrano nell’affermazione del loro interesse nazionale.
Da un lato, Ahmadinejad e Khamenei, dall’altro, Netanyahu e Barak, hanno avanzato giustificazioni alla necessità di uno scontro frontale e apocalittico tra i due stati che poco hanno a che vedere con il ragionevole perseguimento di interessi strategici. Sono giustificazioni ideologiche radicate sia nella cultura sciita, sia in quella ebraica (o, per meglio dire, nella sua variante sionista). La prepotente “politicizzazione” del sacro da parte di ambedue i contendenti solleva quindi numerosi interrogativi sul futuro e fosche nubi sul destino del Medio Oriente. Una tale politicizzazione non riguarda soltanto gli attentati compiuti dal terrorismo islamista: può infatti corrompere la politica estera di un Paese. Fermamente convinto del carattere messianico della propria missione nazionale, uno Stato può essere sospinto – avendo compiuto evidenti errori di valutazione – a eccedere i limiti e le opportunità storiche. Una nazione che si ritenga la più virtuosa al mondo, proprio perché investita da un presunto compito divino, può facilmente porre la propria salvezza nella politica. E le illusioni, che la politica estera “escatologica” di alcuni stati può provocare, sono assai pericolose per l’intero sistema internazionale.
Un eventuale attacco preventivo israeliano – opzione sulla cui opportunità anche l’esercito sembra mostrare più di un dubbio – contro i siti per l’arricchimento dell’uranio, prima che il programma nucleare iraniano venga trasferito in nuovi e impenetrabili bunker costruiti sotto le montagne, apre scenari imprevedibili. Pur se l’intervento dovrebbe risolversi in raid di quattro o cinque giorni, le conseguenze di un tale gesto non appaiono quantificabili. L’Iran potrebbe tentare di chiudere lo Stretto di Hormuz, finendo per determinare gravi incidenti navali con la marina militare statunitense. Inoltre, è assai probabile che il risentimento islamico verso Israele conosca una nuova e sanguinosa escalation con attentati suicidi in tutto il Paese, con un rinnovato protagonismo militare di Hamas, con un riacutizzarsi del conflitto latente con gli Hezbollah libanesi.
Qualora l’attacco aereo – come ha suggerito con sospetto tempismo al Washington Post anche il Segretario alla Difesa americano, Leon Panetta – dovesse avvenire tra la primavera e l’estate, Israele dovrà fare i conti con una situazione assai complessa e pericolosa. Ma potrebbe essere tutto il Medio Oriente – e, al suo interno, le tante minoranze cristiane, oltre che il già incerto cammino della primavera araba – a trovarsi di fronte all’ennesima destabilizzazione.
Nel poker, razionalità e irrazionalità sono mischiate tra loro. E, molto spesso, l’una può finire col prevalere sull’altra. È pertanto auspicabile che sia la razionalità ad avere il sopravvento sull’irrazionalità. Ma, purtroppo, sappiamo che non è sempre così. Il desiderio di andare a scoprire le carte iraniane, potrebbe trasformarsi per Israele soltanto in un modo assai rischioso (e controproducente) di far saltare il tavolo.