La Spagna è in una situazione di emergenza lavorativa. Dopo che il 2011 si è chiuso con quasi 5.300.000 disoccupati (dati Epa – Indagine sulla popolazione attiva), nessuno esclude che arriveremo a 6.000.000 nei prossimi mesi. Le previsioni internazionali indicano, infatti, che nel 2012 ci sarà una recessione tra l’1% e l’1,7%. E con tale tasso di decrescita, si continuerà a perdere lavoro.



Il Paese si sta impoverendo, il reddito nazionale è in calo, mentre aumenta il numero dei poveri. Secondo il rapporto pubblicato dalla Caritas nei giorni scorsi, il 22% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà e l’anno scorso già 580.000 famiglie non hanno avuto alcun tipo di entrata economica. La disoccupazione, oltre a un problema economico, comporta un grosso ostacolo per lo sviluppo esistenziale delle persone.
In questa situazione drammatica risultano sorprendenti i termini con cui si sta svolgendo il dibattito sulla riforma del lavoro approvata qualche giorno fa dal governo, che ancora non è definitiva.



Nel momento in cui è necessario un profondo dibattito nazionale, i principali sindacati hanno cominciato una corsa verso lo sciopero generale per motivi politici. I socialisti, che sono in uno dei momenti di minor consenso della loro storia, hanno annunciato direttamente un ricorso alla Corte costituzionale. In questo modo spingono affinché l’esecutivo non introduca alcun cambiamento.

Ci vuole un esercizio di sincerità, da parte di tutti, e un cambiamento della cultura del lavoro. La Spagna è il Paese che distrugge più rapidamente l’occupazione, che ha il più alto tasso di disoccupazione giovanile (46,4%): è il triste campione della disoccupazione nell’Unione europea. L’esercizio di sincerità sta nel riconoscere che i rapporti di lavoro sono ideologizzati e pieni di malfunzionamenti. Si tratta anche riconoscere che un cambiamento in questi rapporti non implica di “per sé” la creazione di occupazione.



I due assi fondamentali della riforma, anche se il Governo non li ha presentati così, sono i costi minori per il licenziamento e l’aumento della flessibilità per le aziende, che toglie potere ai sindacati. La Spagna è uno dei paesi in cui licenziare costa di più in Europa. La riforma ha ridotto da 45 a 33 giorni l’indennità per il licenziamento nei contratti a tempo indeterminato. Facilita inoltre il licenziamento per le imprese in difficoltà economiche: se per tre trimestri consecutivi si registra un calo delle vendite, si può licenziare con un’indennità di 20 giorni.

Il licenziamento costoso ha due effetti: si assume di meno, ed è per questo che in Spagna si utilizzano molti i contratti a tempo determinato, e si licenzia meno. Viceversa, se terminare il rapporto di lavoro è più economico, si licenzia di più e si assume di più: c’è più movimento e si favorisce l’aumento della produttività. Molti spagnoli, nonostante l’alto tasso di disoccupazione e il fatto che i contratti a tempo indeterminato arrivano solamente dopo molti anni, identificano la sicurezza con la prima formula: un mercato con meno assunzioni e con meno licenziamenti. In fondo c’è paura del cambiamento, di costruire la propria occupabilità. È logico pensarla così quando le opportunità sono poche e quando manca la cultura del rischio.

La seconda area di riforma è la flessibilità. Viene data priorità ai contratti collettivi delle imprese, il che è un vero sollievo, perché la struttura degli accordi settoriali generava problemi alle imprese in difficoltà. Questo permette alle aziende con problemi di avere una boccata di ossigeno, perché non sarà difficile modificare le condizioni salariali e ridurre gli orari di lavoro. E arriviamo così alla seconda questione culturale, che in questo caso riguarda gli imprenditori. Davanti alle difficoltà, il datore di lavoro potrà scegliere se usare il licenziamento meno caro o gli strumenti della flessibilità che avrà a disposizione per continuare a lottare per i posti di lavoro.

L’emergenza che vive la Spagna richiede un cambiamento nella cultura del lavoro. Se questo cambiamento si realizzerà, si farà più ricorso alla flessibilità e meno ai licenziamenti. Per questo è necessario superare i vecchi schemi: quello che mette datori di lavoro e dipendenti su due fronti contrapposti; quello degli occupati e dei disoccupati che continuano a sognare un tipo di sicurezza che non richiede di assumersi rischi, di essere creativi o di continuare costantemente a formarsi; quello degli imprenditori che per anni hanno conseguito alti ricavi in settori a basso valore aggiunto, come l’edilizia, senza scommettere sull’innovazione, senza il lavoro costante di cercare, insieme a ai propri dipendenti, nuove opportunità.

Siamo di fronte a una sfida nazionale, che richiede molta intelligenza e molta voglia di lavorare insieme.

Leggi anche

IL CASO/ Quel “morso” che mette in crisi il sogno americanoIL CASO/ Dalla Spagna due buoni consigli alla ForneroLETTERA/ Il lavoro in Cina, tra giovani “in fuga” e crescita economica