Sembravano rassicuranti le notizie giunte da Gaza solo qualche giorno fa. “In caso di guerra con Israele non sosterremo l’Iran” era la promessa di Hamas. Parole che facevano ben sperare in una tregua con il vicino stato ebraico. E invece è bastato poco per riaccendere quella miccia che non si esaurisce mai: alcuni colpi di mortaio lanciati in direzione di Israele hanno registrato otto feriti. Non si è fatta attendere l’offensiva israeliana: un raid nella Striscia ha ucciso il leader dei Comitati di Resistenza Popolare. Questo affronto ha provocato un nuovo attacco:  alcuni missili sono caduti nelle città israeliane di Ber Sheva, Ashdod e Ashkelon. A quel punto Israele ha risposto con altri raid sulle cellule della Striscia da dove sono partiti gli attacchi. Questi rapidi botta e risposta sono costati 18 vittime. Il tutto in solo 48 ore.



Durante questi scontri un dodicenne palestinese è morto mentre andava a scuola. Il fratellino che lo accompagnava è rimasto ferito. Terroristi, secondo il punto di vista israeliano. Tanto che Netanyahu ha rivendicato con orgoglio: “Non ci fermeremo. Gli abbiamo fatto pagare un prezzo alto e continueremo a farglielo pagare”.



Possiamo così tornare a discutere come sempre su chi ha ragione e chi ha torto, metterci a contare i morti, dare la colpa a chi ne uccisi di più, e difendere chi ha più vittime da consolare. Possiamo constatare con rabbia che la legge del taglione riscuote ancora successo, e a volte fin troppo. O interrogarci su quali saranno le prossime mosse, e a quanti morti salirà questo triste bilancio. Di solito accade così, giornalisti e politici si scannano a difendere l’una o l’altra parte. Qualcuno si sforza perfino di invocare gli aiuti umanitari.

Solo un quotidiano ha messo l’accento sulla vittima più fragile di questa vicenda. Quel bambino morto nel campo profughi a est di Jabaliya. Abbiamo già sentito storie così, ci sono già stati casi più gravi. E certamente ce ne saranno ancora. Una foto di quel giornale mostrava il volto della madre, straziato dal dolore.



Una donna di cui non sappiamo nulla, se non che ha perso un figlio e ne ha un altro in gravi condizioni da curare. Quasi nascosto dai fumi della battaglia, c’è quel bambino palestinese per terra, mentre i due popoli continuano ad affrontarsi. A elaborare sempre più sottili strategie per dare scacco all’altro. Palestinesi e Israeliani impegnati a uccidere, a cercare nuove mosse per incutere paura. Ancora, dopo anni. Fino a quando non si decideranno a scrivere la parola “fine”. In fin dei conti, perchè dovrebbero preoccuparsi tanto di quel bambino?