Il suo nome rimarrà legato, in terra cattolica, prevalentemente all’ecumenismo; fu il primo patriarca della chiesa copta egiziana a incontrarsi, dopo 1500 anni, con il pontefice romano (avvenne nel ’73, con Paolo VI) e spese gran parte delle sue risorse intellettuali e delle sue energie per l’unità dei cristiani. Oltre che, ovviamente, per il suo popolo. Per oltre 40 anni (nel 1971 divenne il 117° successore dell’evangelista Marco) ha guidato la chiesa cristiana copto-ortodossa, contribuendo alla sua espansione nel mondo. Ordinò i primi vescovi in Australia, America e Usa, dove si contano ormai un centinaio di parrocchie. E divenne il punto di riferimento anche politico della minoranza cristiana egiziana. Seppe farsi amare da tutti tanto che, alla notizia della sua morte, avvenuta l’altro ieri, a 88 anni, migliaia di fedeli si sono riversati nella cattedrale di Abbasseya, ove aveva la residenza. Assieme a loro c’erano anche moltissimi musulmani. Abbiamo chiesto ad Abdel Fattah di parlarci di papa Shenuda III.
Chi era Shenuda per gli egiziani?
Per tutti i cristiani e gli islamici era un personaggio irreprensibile dal punto di vista patriottico, un uomo saggio e un baluardo contro i fondamentalismi, da qualunque parte essi provenissero. Personalmente, serbo il ricordo di un motto che era solito ripetere: “L’Egitto non è una patria in cui viviamo, ma la patria che vive nei nostri cuori”.
Qual era il suo rapporto con i Fratelli musulmani?
Consideri che ai funerali parteciperà anche una delegazione di massimo livello della Fratellanza musulmana; alle esequie di Shenuda sarà presente, tra gli altri, anche la guida spirituale del movimento, Muhammad Badì. Tale era la stima nei suoi confronti che ci auguriamo che il Consiglio della chiesa copta riesca a eleggere un personaggio alla sua altezza.
Quali erano, invece, i suoi rapporti con l’islam?
Direi ottimi. Era, infatti, un simbolo della pace tra gli appartenenti alla religione diverse e dell’unità nazionale. Non a caso, moltissimi cittadini islamici si sono recati presso la cattedrale di Abbasseya per fargli un ultimo saluto. In tante crisi e divergenze si è sempre comportato in maniera estremamente saggia assumendo, spesso, il ruolo di mediatore.
Può faci un esempio?
In tutti quei casi in cui alcuni cittadini musulmani di un villaggio si sono scontrati con alcuni compaesani cristiani o appartenenti ad un altro villaggio, ha sempre cercato di ricomporre il conflitto attribuendogli i termini corretti. Ovvero, ha sempre invitato a considerare questi episodi per quello che erano: incidenti tra egiziani, e non scontri tra islamici e cristiani.
Ci sono degli elementi che Shenuda condivideva con l’islam?
Nel suo cammino spirituale trovo che vi fossero diverse assonanze con la sensibilità islamica. Per anni, ad esempio, visse in eremitaggio. Era solito pubblicare, inoltre, degli articoli sui quotidiani egiziani alcuni dei quali ci trovavano in perfetta sintonia. Quando, ad esempio, scriveva del digiuno individuando in esso una della pratiche che accomunano le diverse religioni.
Elementi, invece, di contrasto?
Per lo più, divergenze di carattere politico. In particolare, per quanto riguarda la gestione della fase transitoria. Per lo più avevamo opinioni diverse sul ruolo dell’esercito. Shenuda, come tanti compaesani cristiani, era convinto che il Consiglio militare supremo avesse agito in maniera profondamente ingiusta, compiendo molti errori. Noi abbiamo sempre fatto presente che, benché errori ce ne siano stati, sono dipesi dal fatto che i militari, volenti o nolenti, hanno dovuto assumere un ruolo politico pur essendo privi della sufficiente esperienza. E che non possiamo non riconoscere loro il merito di aver protetto la rivoluzione. Insomma, diciamo che ciò che la spiritualità unisce, talvolta la politica divide. Tuttavia, si è sempre trattato di piccoli contrasti, tipici di qualunque Paese in via di ricostruzione.