E’ difficile, nel leggere il resoconto delle cronache da Tunisi che viene proposto da buona parte della stampa estera, riconoscere la realtà che viviamo quotidianamente in questo paese. Ieri mattina, 20 marzo, giorno festivo nel quale si ricorda l’indipendenza della Tunisia dalla Francia, avvenuta nel 1956, ho percorso a piedi, come sempre, tutta l’Avenue Bourguiba per recarmi nel mio ufficio in Rue d’Alger, dove mi sono incontrato con un cliente italiano con il quale avevo un appuntamento alle undici. Nel grande corridoio centrale che separa le due carreggiate dell’Avenue c’erano centinaia di persone che sfilavano manifestando per una o per un’altra causa, come da un anno a questa parte avviene, senza che si siano registrati incidenti di alcun genere. Dopo aver incontrato il cliente, verso mezzogiorno, ho di nuovo attraversato l’Avenue e, passando in mezzo ai pochi manifestanti che erano rimasti sino a quell’ora, sono andato al mercato centrale e, dopo aver fatto gli acquisti, ho ripercorso a piedi tutta l’Avenue fino all’altezza del Ministero degli Interni, dove ho preso un taxi per tornare a casa.
Alle 17 sono di nuovo uscito per andare all’aeroporto dove ho atteso l’arrivo di un altro cliente italiano. Non ho visto, durante il tragitto, nulla di diverso da ciò che si vede normalmente in un giorno di festa: molti bambini accompagnati dai genitori davanti al parco di divertimenti del Lac e, come sempre, un po’ di coda ai semafori di Rue de La Marsa.
Duro, quindi, una certa fatica a seguire il complesso ragionamento di chi mi racconta, dall’Italia, quella guerra civile che, da vicino, non m’è riuscito vedere.
A questo proposito voglio dire che, se è fuori dubbio che, in Tunisia come in molti altri paesi arabi e non, esistano nuclei di fondamentalisti invasati che vagheggiano uno stato islamico, è quanto meno ingenuo pensare che non esista un interesse preciso, da parte di chi, animato da interessi ben più terreni, vagheggia il ritorno di un dittatore che assicuri quella tanto amata “stabilità” che ha garantito la possibilità di portare avanti per decenni tutta una lunga serie di rapporti privilegiati, di intese sottobanco e di affari più o meno loschi a tutto vantaggio di cricche, cosche, lobbies, logge e loggette d’ogni genere. E’ necessario ricordare quanti affari del genere sono stati condotti da personaggi europei molto in vista, sino al 14 gennaio 2011, in Tunisia, con il beneplacito della sempre più numerosa e famelica famiglia del dittatore Ben Alì, e quanti amplessi interrotti hanno gettato nel dolore quanti han visto dissolversi nel nulla affari d’oro (e ingenti quantità di danaro) messi in ponte con la banda di corrotti che governava il paese? 



E’ ovvio che, per questi non certo teneri idealisti, non c’è nulla di meglio, e di più efficace, che sostenere i gruppuscoli di fanatici per incitarli a compiere gesti odiosi, come quello della bandiera nera dell’università di Manouba, per poi tirar fuori l’arma dell’islamofobia e invocare il ritorno d’un potere forte, ossia d’un dittatore nuovo fiammante, con il quale poter ricominciare a fare affari.
Questo è, oggi, il pericolo vero che sta correndo la Tunisia. Un pericolo che molti, per un motivo o per un altro, fanno finta di non vedere, e che è molto più reale di quel film, raccontato sulle pagine dei giornali, che noi, sulle strade di Tunisi, non abbiamo visto.

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