“La religione deve unire il popolo, e non provocare divisioni”. Con queste parole, che sono state la premessa per affermare che l’articolo 1 della vecchia Costituzione (dove si sostiene, sostanzialmente, la neutralità dello Stato in materia di religione) non è in discussione, Rashid Ghannouchi ha ribadito, per l’ennesima volta, nel corso della conferenza stampa tenutasi oggi presso la sede di Nahda, la posizione ufficiale del partito che guida la coalizione del governo Jebali, formatosi a seguito del risultato delle prime libere elezioni in un paese che, dopo settantacinque anni di colonialismo francese e cinquantacinque dominati dalle figure di due dittatori, vive per la prima volta quel mix di gioia e dolori, ansia e speranza, dubbi e certezze, che si chiama “democrazia”.
Il tempo della stabilità garantita da una repressione feroce, che non rinunciava persino alla tortura per eliminare senza troppi complimenti ogni forma di opposizione al regime, è finito il 14 gennaio 2011: la Tunisia ha voltato pagina e non tornerà indietro. Dalle urne del 23 ottobre 2011, dopo una giornata di elezioni che si sono svolte in un clima di grande autodisciplina, è uscito un parlamento  costituente variegato che, pur con una maggioranza schiacciante (41%) del partito Nahda, vede rappresentati molti dei partiti “laici” che si erano presentati sulla scena politica del dopo 14 gennaio.
Oggi in Tunisia tutti i partiti, tutte le componenti sociali e culturali della società, godono di piena libertà di espressione e le opposizioni possono manifestare pubblicamente il loro dissenso. Nessuna voce, neppure quando l’intemperanza verbale di qualche oratore scivola nell’apologia del reato, viene ridotta al silenzio dalla polizia, che è intervenuta raramente per prevenire e, rarissimamente, per reprimere e solo nei casi in cui dalle parole si è cercato di passare ai fatti, ovvero alle mani o a pietre e bastoni. Sembra, quindi, che tanto il presidente del partito Nahda, Rashid Ghannouchi, quanto il suo segretario generale, il primo ministro Hamadi Jebali, stiano mantenendo tutto quello che avevano promesso nella campagna elettorale.



Ma i sostenitori della tesi del “doppio linguaggio” di Nahda, smentiti dai fatti, non demordono e accusano, oggi, il governo, ma soprattutto Nahda, di non fare abbastanza per reprimere gli eccessi. Non tutti, ovviamente, ma solo quelli di chi, manifestando liberamente, non sta “dalla parte giusta”.  
Pare proprio che a quanti, puntando su uno scivolone di Nahda, hanno manovrato negli ultimi giorni dietro le quinte per scatenare gli animi dei salafiti cercando lo scontro per appiccare un incendio, non resti altro da fare che inventarsi qualcosa di nuovo per cercare di rimettere il paese nelle mani di un nuovo dittatore. E non è detto che non ci stia già pensando.

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