L’inviato speciale dell’Onu e della Lega Araba per la Siria, Kofi Annan, ha annunciato l’accettazione da parte del governo di Damasco del piano di pace in sei punti recentemente presentato, parlando di un «importante passo iniziale» verso la fine del conflitto in Siria, che ha già provocato la morte di oltre 9mila civili. I sei punti del piano proposto da Annan prevedono tra l’altro l’impegno a fermare tutte le violenze, il ritiro delle truppe siriane e delle armi pesanti dai centri abitati, e due ore di tregua al giorno per garantire la fornitura di assistenza umanitaria in tutte le zone colpite dalle violenze. IlSussidiario.net ha contattato Antonello Folco Biagini, prorettore per la Cooperazione e i Rapporti internazionali e docente di Storia dell’Europa orientale presso l’Universita di Roma La Sapienza.
Professore, si trova d’accordo con Kofi Annan quando dice che si tratta di un «importante passo iniziale» verso la fine della guerra civile in Siria?
Quanto accaduto rappresenta sicuramente un passo avanti, anche se è necessario aspettare ancora per vedere il reale effetto che il documento potrà portare. L’accettazione da parte del governo di Damasco potrà garantire un fermo del conflitto siriano, ma questo non significa arrivare a un processo positivo di democratizzazione del paese.
Come mai?
Il governo siriano si impegnerà probabilmente a rispettare diversi punti, ma imporrà anche all’opposizione dei comportamenti meno “aggressivi”. Impedire quindi alle persone di manifestare ed esprimere il proprio pensiero, va certamente contro ad una reale lotta per la democrazia.
Annan ha dichiarato che «ora la chiave sta nell’applicazione del piano». Secondo lei quanti e quali punti verranno rispettati?
Come storico e analista politico posso dire con certezza che spesso il contenuto degli accordi non viene mai totalmente realizzato, quindi bisognerà vedere quali parti dell’accordo saranno preminenti. Forse potrà anche rappresentare la fine di un idea, di un sogno di libertà, ma è anche vero che quanto annunciato da Annan mostra che il regime si è indebolito molto.
Da cosa si capisce?
Accettare un piano imposto addirittura dall’esterno significa che il regime, il governo e le forze dell’esercito riconoscono di non avere la forza per mettere la parola fine a questa vicenda. E’ molto difficile dire che cosa si realizzerà, perché già in tante altre simili situazioni abbiamo visto come sia facile iniziare in un modo e finire in tutt’altro. Dopo l’“esplosione” delle grandi idee e dei sogni, la situazione ha spesso uno sviluppo completamente diverso, che spesso è l’esatto opposto di quello che si pensava.
Il piano proposto da Annan non parla di eventuali dimissioni del presidente Assad né dei limiti temporali per l’applicazione delle misure richieste. Secondo lei sarebbe stato meglio menzionare anche questi punti?
Se nel piano di Annan fosse stato trattato il tema delle dimissioni di Assad, certamente il governo siriano non avrebbe accettato. Siamo quindi di nuovo in una sorta di compromesso, in cui il governo riconosce questa sua “debolezza” accettando il piano, ma con la consapevolezza che non potrà andare oltre certi limiti, anche perché l’autorità di Kofi Annan è comunque più morale che materiale. Certo, l’Onu potrebbe anche intervenire, ma si tratterebbe di un nuovo conflitto, anche se verrebbe chiamato con un altro nome. E’ quindi logico che non sia stato affrontato il tema delle dimissioni, e la Comunità internazionale riconosce probabilmente il fatto che Assad ancora mantiene una certa forza, anche se non è più quella totalitaria che aveva prima.
Per quanto riguarda invece i limiti temporali e le scadenze per l’applicazione?
Su questo tema forse si poteva insistere di più, in modo tale da avere tempi più certi. In genere, quando ci sono questo tipo di accordi, come negli armistizi, spesso le truppe che operano tendono ad accentuare il meccanismo della violenza prima che arrivi il cessate-il-fuoco. Spero non accada, ma potremmo anche assistere ad un aumento della violenza in atto, fino alla definitiva conclusione.
Annan, in una visita a Pechino, ha detto al premier cinese Wen Jiabao che l’obiettivo di mettere fine ai combattimenti è molto arduo e di «avere bisogno» della Cina per raggiungerlo. Cosa ne pensa?
La Cina rappresenta ormai una grande realtà economica e, anche se lentamente, sta diventando anche una media potenza militare. Inoltre, un eventuale e ipotetico intervento che si sarebbe dovuto attuare aveva necessità di essere approvato anche da Russia e Cina, che si sono dimostrate sempre piuttosto “tiepide” nei confronti di questo tipo di interventi.
A cosa assisteremo secondo lei nei prossimi giorni?
Siamo ancora sul piano delle forme, quindi dovremo aspettare i prossimi giorni per vedere in cosa esattamente consiste quello della sostanza. Per il momento, sul piano formale sono stati raggiunti alcuni obiettivi, ma da qui in poi cominciano i veri punti interrogativi.
(Claudio Perlini)