Solitamente, gli strali delle riforme del lavoro si accaniscono indistintamente senza guardare in faccia nessuno. Neanche la Spagna, come l’Italia, poteva uscire indenne dalla revisione della disciplina. Niente di drammatico, per carità. Tanto più che è opinione comune che tali provvedimenti siano improcrastinabili. Tuttavia, ieri la Penisola iberica si è fermata per l’ottavo sciopero generale indetto da quando il Paese ha assunto forma repubblicana. In particolare, i due sindacati maggiori hanno chiesto ai cittadini di scendere in piazza per manifestare contro quelle misure che renderanno i licenziamenti economici più facili di prima e ridurranno gli indennizzi per chi perde il lavoro. Salvo le evidenti assonanze, tuttavia, le differenze con il nostro Paese sono molto più rilevanti delle analogie. Stefano Giubboni ci spiega perché.
Qual è la situazione del mercato occupazionale spagnolo?
Anzitutto, il tasso di disoccupazione è molto più alto che in Italia. Noi, a causa dell’aggravarsi della crisi, abbiamo superato il 9%, mentre la Spagna viaggia su livelli più che doppi, al 23%, paragonabili solamente, specie per quanto riguarda quella giovanile e quella femminile, alla situazione di alcune aree del Meridione del nostro Paese.
In che modo il Paese ha riformato il mercato del lavoro?
Il Paese si è incamminato – da molti anni, in realtà – sulla strada di una riforma particolarmente dura. Specie sul fronte, per l’appunto, delle rigidità della disciplina dei licenziamenti di carattere economico, e su quello delle indennità dovute in caso di licenziamento.
Sono stati questi i punti che hanno innescato lo sciopero generale?
Sì. Ma si è trattato semplicemente di ulteriori inasprimenti. La profonda revisione della normativa è iniziata nel 2002. Allora, quando in Italia c’era un governo di centrodestra, l’orientamento prevalente in materia era pressoché il medesimo. Gli spagnoli, tuttavia, sono riusciti ben prima di noi a incidere normativamente sulla disciplina dei licenziamenti. Non solo: furono effettuate operazioni estremamente spinte rispetto all’incremento della flessibilità in entrata tanto che, a un certo punto, si rese necessario far marcia indietro per limitare la parossistica proliferazione dei contratti a termine.
Perché, in Spagna, l’iter, a quanto sembra, è proseguito senza intoppi?
Il secondo governo Berlusconi, che aveva fatto dell’abolizione dell’articolo 18 parte del suo programma, fu ostacolato, prevalentemente, dall’opposizione del fronte sindacale che, per l’occasione, mostrò una certa compattezza. Il sindacato spagnolo, del resto, è molto più debole di quello italiano e ci sono tassi di sindacalizzazione più bassi. Senza contare infine l’accelerata impressa dalla forte pressione europea.
La riforma dei licenziamenti è paragonabile a quella italiana?
I contesti di partenza normativi sono diversi, ma il trend e il fine sono i medesimi. Anche in Spagna, infatti, l’intervento per ridurre la rigidità fu realizzato con gli stessi intendimenti con cui viene proposto oggi in Italia: ovvero, per incentivare le imprese ad assumere a tempo indeterminato, presumendo che potendo licenziare più facilmente, avrebbero assunto anche più facilmente.
È stato così?
No. Il tasso di disoccupazione è rimasto altissimo e non appena la crisi economica – specialmente quella locale, relativa alla sgonfiamento della bolla immobiliare – ha cominciato a farsi sentire, è aumentata; d’altro canto, è aumentata la quota di contratti a termine.
Quindi?
Quando si citano esempi stranieri occorrerebbe contestualizzare. La disciplina di un singolo istituto, andrebbe messa in relazione con la normativa generale. I modelli andrebbero confrontati in maniera metodologicamente corretta. Non si può estrapolare un segmento di normativa senza contemplare, ad esempio, il ruolo e il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, anche nei processi di ristrutturazioni d’impresa.
Quali valutazione possiamo fare, rispetto alla situazione generale?
Le leggi sui licenziamenti e, in generale, quelle sul mercato del lavoro incidono in piccola parte sulle perfomance economica di un sistema. Le criticità e le leve fondamentali risiedono sempre nell’economia reale e nelle politiche legate alla crescita. Purtroppo, le politiche di rigore europee, contestualmente all’assenza di strategie legate alla crescita, stanno contribuendo a deprimere la domanda aggregata.
La Spagna prevede di implementare gli ammortizzatori sociali?
Sul piano della compensazione sociali non risulta che ci siano novità significative. Anche perché in Spagna la copertura è più ampia rispetto all’Italia. Il nostro Paese, infatti, si caratterizza per una frammentazione degli ammortizzatori che non si trova nel resto d’Europa. Copriamo, cioè, una percentuale troppo bassa di lavoratori che perdono il posto.
In ogni caso, per gli spagnoli uno sciopero generale è un evento clamoroso o all’ordine del giorno?
Non enfatizzerei. Si tratta di eventi relativamente rari, certo. Ma pur di fronte a una crisi particolarmente pesante, la conflittualità in Spagna, come negli altri Paesi più colpiti, direi che è rimasta, tutto sommato, a livelli contenuti.
(Paolo Nessi)