Le donne e la primavera araba, un binomio assai complesso da descrivere, non solo nella loro singolarità ma soprattutto nel loro intrecciarsi in questi dodici mesi di rivolta e di rapida restaurazione conservatrice in Nordafrica. La condizione delle donne in Nordafrica dopo la primavera araba non è per nulla migliorata, nonostante alcuni media reticenti e in malafede vogliano o abbiano ancora il coraggio di parlare di una rivoluzione per le donne. Bastino alcuni dati per descrivere questa situazione di fatto. In Marocco, laddove nel precedente esecutivo erano presenti ben 11 donne, con compiti di altissimo rilievo politico e istituzionale, oggi nel neonato governo Benkirane del Pjd, c’è solo una donna, velata e per di più marcatamente contraria alle conquiste della donna marocchina. Conquiste che con la Mudawana di Mohammed VI, riforma del diritto di famiglia, erano state sostanziali, con un’alfabetizzazione crescente e un tasso di donne lavoratrici sempre in crescita. Donne autodeterminate e libere.
Chi vive in Marocco prima e dopo la primavera, che lì è stata per la verità abbastanza sbiadita, si accorge di una differenza comunque evidente. E dall’Italia le donne marocchine, Acmid in testa, hanno lanciato una protesta clamorosa contro questa decisione di Benkirane, che in base a questo e timoroso di perdere quel poco consenso di minoranza che ha, aveva anche paventato chiaramente la volontà di dimettersi. Cosa che alle donne marocchine ovviamente non dava alcuna soddisfazione, visto che hanno chiesto non la caduta del governo ma più donne in quello stesso governo, come viceministri o sottosegretari.
Se dal Marocco passiamo alla Tunisia ci accorgiamo che il cambiamento è ancora più radicale perché ancor più radicale è la formazione che ora traghetta il Paese. An Nahda è notoriamente un partito che non fa della moderazione e del ruolo delle donne il suo caposaldo politico e storico e lo sta dimostrando in pieno. Appena salita al governo provvisorio, An Nahda ha pensato bene di rimuovere la presidente della Cassazione tunisina, che lì evidentemente dava un fastidio micidiale perché donna e perché apprezzata unanimemente. E in Tunisia le donne da tempo ormai partecipavano alla vita civile e politica del paese, quasi come in Occidente, sulla scorta delle riforme di Bourghiba, che dal 1956 ha orientato la società e le sue leggi sulla base di vedute favorevoli alla donna. Coraggiose e dai più ritenute visionarie per il mondo arabo, le idee di Bourghiba seguite dal legislatore tunisino hanno fatto la storia. Una storia che oggi gli estremisti vogliono distruggere in tutte le sue forme. Ma non basta. Perché all’interno delle università le ragazze vengono aggredite dai salafiti per obbligarle a portare il velo, cosa che non hanno mai fatto in vita loro e che mai si sarebbero sognate di fare.
Oppure vengono poste dinnanzi al pericolo che l’infibulazione, pratica in Tunisia mai vista, diventi legge tramite una fatwa. Ringraziando il cielo ci sono ancora moderati e intellettuali coraggiosi, a differenza di quelli pronti a scappare, che difendono, spesso anche con la vita o la libertà, questi principi moderni e laici. Minacciati, ora, dall’oscurantismo del salafismo militante.
In linea storica retta c’è l’Egitto. Qui il cambio di aria si era notato già dalla campagna elettorale, in cui nei manifesti di Al Nour, primo partito salafita, le donne venivano ritratte con un fiore e non con il loro volto. Oppure alle donne che manifestavano in piazza veniva applicato quell’odioso controllo chiamato “test di verginità”, raccontato da Amnesty International ma mai punito dalla comunità internazionale. Che è cieca e muta anche di fronte alle violazioni dei diritti che avvengono in Egitto ogni giorno: le donne e le minoranze, come i copti, sono ogni giorno vessati e massacrati nel silenzio. Qui la sfera politica o sociale non ha davvero alcuna consistenza per quanto riguarda le donne, basta vedere il Parlamento egiziano tramutato in un luogo di preghiera o di invettiva contro le minoranze.
L’ultimo paese toccato finora e abbattuto dalla primavera araba è la Libia, in cui Gheddafi era sì un raìs, del quale non si può che parlare come la storia lo racconta, ma è pur vero che le donne non avevano sotto di lui quel trattamento che ora Jalil e soci riservano loro. Scomparse nel nulla, emarginate e assolutamente in ombra nei processi che contano. La loro presenza nei prossimo organi governativi non è in questione. Se è vero che per Jalil la sharia dovrà imperniare la legge dello Stato e nulla potrà ad essa essere posposta.
Ecco la donna nella primavera araba e dopo. Ecco il perché della nostra paura dei Fratelli Musulmani e dei salafiti. Un mondo arabo in cui la donna non potrà nemmeno essere più sottomessa, perché la sua figura non esisterà più. Ma del resto in questo l’Afghanistan fa scuola, come l’Algeria, in cui dopo la vittoria del Fronte Islamico di Salvezza 380mila donne sono morte sgozzate o sepolte vive per mano della lama salafita. Ma nessuno li ha mai trascinati all’Aja per rendere conto dei crimini contro l’umanità, perché le donne davanti al petrolio o al gas, cosa sono? Nulla, solo un pallido ricordo da esumare l’8 marzo, perché si faccia loro un pallido applauso mentre l’immagine della loro vita man mano sbiadisce nelle fauci della violenza radicalista.
Un 8 marzo che in Occidente, ignare di tutto, le donne festeggiano in maniera pedissequa e vuota di significato, non sapendo che per le donne del Nordafrica esso sarà profondamente amaro.