Violato ancora una volta il cessate il fuoco in Siria. Nella notte è stata bombardata per quasi due ore la città di Homs, simbolo della ribellione contro il regime. Nel terzo giorno del cessate il fuoco, i fedeli a Bashrar Al Assad non sembrano intenzionati a voler rispettare la tregua, imposta dall’Onu e dalla Lega Araba: 18 persone sono state uccise nelle ultime quarantotto ore. A Dmeir, nella provincia di Damasco, sono state ultimate perquisizioni in alcune abitazioni durante le quali è stato ucciso un civile. Proiettili di granata sono stati lanciati contro la zona di Al-Kussair e questa mattina il regime ha inviato altri militari nella regione. Già nei giorni scorsi erano stati segnalati spari contro alcuni manifestanti. Intanto, al Palazzo di Vetro si continua a trattare per trovare una soluzione alla crisi in Siria. E’ attesa la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per l’invio della missione di osservatori Onu. Abbiamo chiesto un parere a Antonello Folco Biagini, prorettore per la Cooperazione e i Rapporti Internazionali, professore ordinario di Storia dell’Europa Orientale presso l’Università “La Sapienza” di Roma.



Professore, perché la Siria non riesce a concludere la sua “Primavera”?

Perché Bashar Al Assad è intenzionato a difendere il potere a tutti i costi. Sebbene abbia una formazione europea e negli anni scorsi abbia frequentato gli ambienti occidentali, non si adatta alle norme che rispettano i diritti della minoranza, anche di fronte ad una rottura del consenso. Come ad esempio decidere per elezioni democratiche. Più importante ancora è il problema religioso e la diversità fra sciiti e sunniti, e di fronte ad un quadro così complicato la comunità internazionale non ha molti strumenti per contrapporsi a certe forme di violenza.



Forse, perché gli scenari del dopo-regime spaventano maggiormente chi potrebbe intervenire?

Questi regimi mantengono una sorta di equilibrio non solo nel proprio paese, ma anche in aree più vaste: le esperienze in Egitto e in Iraq non portano a favorire soluzioni traumatiche e, paradossalmente, si finisce per mantenere uno status quo che non giova a nessuno perché le crisi si incancreniscono e diventano sempre più violente.

Qual è il ruolo dell’Onu?

Sino a quando esistevano i due blocchi est ed ovest, poteva intervenire nei conflitti regionali, avendo avuto il consenso di uno dei due. Oggi, le difficoltà sono aumentate per via del mondo multipolare, dove tutti i soggetti tendono a far valere le proprie volontà. Magari si arriva alla mediazione, come accaduto in Siria, ma senza che sia basata su accordi determinanti fra le parti. Neppure la richiesta di un corridoio umanitario è stata decisa dai membri del Consiglio di Sicurezza, nonostante ci siano migliaia di profughi che spingono alla frontiera e molti altri abbiano intenzione di andarsene. Nemmeno la Lega Araba, più vicina con i suoi membri ai problemi del Medio Oriente, riesce a trovare il bandolo della matassa.



A questo punto, è possibile un ricorso alla forza da parte del Consiglio di Sicurezza?

L’Onu non ha una forza propria: essa è basata su quella dei contraenti e mi sembra improbabile che l’Unione Europea, la Cina e gli Stati Uniti trovino un accordo per organizzare una missione umanitaria; se poi si considerano quelle passate, in Afghanistan e in Iraq possiamo notare che non sono state così brillanti. Non ci sono gli elementi anche alla luce della crisi che stravolge i rapporti delle vecchie potenze. In più, un intervento potrebbe scatenare una reazione indesiderata in Iran, paese che sostiene fortemente il regime di Assad. Non dimentichiamoci la preoccupazione di Israele e Stati Uniti per la questione siriana perché riflesso di una possibile azione da parte del paese di Ahmadinejad: nazione che ha una politica nucleare molto aggressiva.

La protesta dei rivoluzionari è un esercizio di potere, di riflesso, contrario al regime o una genuina richiesta di democrazia?

L’accumulo di scontento è talmente alto che la rivoluzione nasce da episodi secondari, come accaduto per l’ambulante che si è dato fuoco in Tunisia. Il passo successivo è che i rivoluzionari, i ribelli trovino una strada verso la democrazia che invocano. Certo, non dobbiamo pensare ad un tipo di democrazia “anglo-occidentale” a cui noi siamo abituati a pensare con elezioni o parlamenti: l’importante è che siano democrazie che soddisfino la maggior parte della popolazione e rispettino alcuni parametri mondiali, come ad esempio i diritti umani, che 50 anni fa non esistevano. Questo aspetto potrebbe essere il punto chiave per un’omogeneità nei governi orientali nel rispetto delle culture, delle religioni e del pensiero filosofico e sociale.

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