Se, come a detta di molti osservatori, l’intervento delle forze Nato in Libia, per lo meno per quei Paesi che lo hanno fortemente voluto fin dall’inizio, è stato dettato da “interessi energetici” piuttosto che da spirito umanitario, è arrivato il momento di capire se questa partita è stata ben giocata e se gli sforzi saranno ben ripagati. In altre parole, a chi andrà il petrolio libico? Prima di provare a rispondere a questa domanda è necessario fare un passo indietro e capire l’entità reale della posta in gioco.



La Libia è un importante produttore di petrolio, anche se non tra i primissimi al mondo. La sua produzione, prima dell’inizio delle ostilità, ammontava a quasi a un milione e 600mila barili al giorno, circa il 2% della produzione mondiale. Di questi circa il 52% era in mano a 35 aziende internazionali capeggiate dall’italiana Eni che nel 2010 ha primeggiato, con i suoi 267mila barili al giorno, sulla tedesca Wintershall e sulla francese di Total, rispettivamente con 79mila e 55mila barili al giorno.



Dati alla mano dunque è facile intuire come, soprattutto dal 2004, anno della “riabilitazione” della Libia, e soprattutto di Gheddafi, sulla scena internazionale, la ripresa delle relazioni con l’Europa sia stata trainata soprattutto dall’interesse per l’oro nero, tanto che la Libia si è accreditata come uno dei principali fornitori di petrolio per molti stati della sponda nord del Mediterraneo. Nel 2010 l’Italia è stata il primo importatore di petrolio dal Paese nordafricano con una percentuale del 28% del consumo totale, seguita dalla Francia (15%) e da Germania e Spagna (entrambe con il 10%).



Durante il conflitto la produzione di petrolio è stata pressoché sospesa, ma negli ultimi mesi sembra essersi registrata una buona ripresa delle attività. Resta ora da capire a chi andranno le risorse petrolifere libiche, abbondanti certo, ma non inesauribili.

La posizione del nuovo governo, guidato da Abdel Rahim al-Keeb, è stata piuttosto fumosa e orientata indubbiamente ad un certa realpolitik, sembra insomma che i nuovi leader libici abbiano imparato presto ad utilizzare gli strumenti della diplomazia, e d’altra parte come dargli torto? Se lo scatolone di sabbia libico ha sempre vissuto sui proventi della rendita petrolifera, è naturale che la leadership al potere abbia subito compreso la semplice ma efficace equazione: il petrolio può divenire un’arma politica, dunque meglio giocarsela al meglio tenendo, se necessario, un piede in due o più scarpe.

Se da un lato, dunque, il premier libico tranquillizza Paolo Scaroni sul fatto che i contratti petroliferi non sono in discussione e firma con il presidente del consiglio Mario Monti, in visita a Tripoli nello scorso gennaio, la Tripoli Declaration in cui si ribadisce l’importanza del rafforzamento dei rapporti bilaterali tra Italia e Libia, dall’altra non sembra affatto disdegnare le lusinghe del leader francese Nicolas Sarkozy che, dopo avere sostenuto strenuamente il Cnt nella guerra di “liberazione” libica, si è ben presto presentato a chiedere il conto, sotto l’occhio vigile dell’amministratore delegato del gruppo Total, Christophe de Margerie. Con lui anche David Cameron, i cui interessi ad aumentare la marginale “presenza petrolifera” britannica in suolo libico sono facilmente comprensibili.

Nella lunga lista di aspiranti partner non vanno poi dimenticate il colosso russo Gazprom e la China National Petroleum Corp che hanno messo sul campo investimenti miliardari in cerca di nuovi giacimenti, sia di “oro nero” che di gas, e che, seppure penalizzate dai calcoli errati di Mosca e Pechino che hanno tardato troppo a salire sul carro del vincitore a differenza dei loro “colleghi” del Consiglio di sicurezza, potrebbero comunque sorprendere tutti con un colpo di coda di sicuro effetto. A questi vanno aggiunti gli “emissari” di vari governi e le numerose e intraprendenti delegazioni economiche che da oriente a occidente, e a dire il vero senza troppa pubblicità, sono partite per “omaggiare”, fin dalle prime avvisaglie della fine del rais, il nuovo governo libico.

Ma sul piatto della bilancia non c’è solo il petrolio. Ci sono i grandi appalti per infrastrutture per quasi 5 miliardi di dollari e l’indotto potenziale di almeno 60 milioni di investimenti per le piccole e medie imprese, in difficoltà sull’asfittico mercato domestico e dunque ancor più interessate a mettere un piede in territorio libico. Insomma la Libia ha molto da offrire e fa gola a molti, ma resta ancora da capire chi e in che modo riuscirà a mettere una seria ipoteca sui futuri possibili appalti.

Se la partita si gioca sulla ricostruzione politica, ma anche e soprattutto economica, di un Paese uscito devastato dalla guerra, è plausibile credere che maggiori saranno le risorse che gli aspiranti contendenti saranno in grado di mettere in campo, maggiori saranno le loro possibilità di accesso al mercato libico. D’altra parte già prima della fine delle ostilità, il leader del Consiglio nazionale di transizione, Mustafa Abdul Jalil, con un’innegabile lungimiranza, aveva chiaramente chiesto agli “amici della Libia” aiuti in cambio di petrolio. Consiglio evidentemente recepito dalla Francia che, secondo indiscrezioni mai confermate, avrebbe siglato già nell’aprile dello scorso anno un gentlemen agreement con il Cnt per assicurare alla Total una notevole fetta del petrolio libico, offrendo in cambio tutto il sostegno necessario per la “transizione”.

Da questo punto di vista, però, anche l’Italia ha le sue carte da giocare. Anche se è terminata l’epoca dei privilegi, garantiti da un trattato amicizia che in cambio di cospicui aiuti economici garantiva la primacy all’Italia per l’assegnazione di giacimenti e infrastrutture, dall’altra va ricordato che già nello scorso gennaio il Cane a sei zampe era tornato a produrre in terra libica circa 240mila barili al giorno, poco meno di quanto prodotto prima della guerra. La ripresa della produzione ha comportato un rapido cash nelle tasche del governo libico che mai come in questo momento ha bisogno di risorse per costruire il proprio ambizioso progetto della Libia che verrà e che, dunque, sembra prediligere la politica del “business as usual”.

Se quindi, almeno nell’immediato, l’Italia, e con questa l’Eni, non rischierebbe di perdere la premiership,  non avrà certo vita facile nel difendere la relazione privilegiata che si è costruita con tanta fatica. Francia e Regno Unito, che hanno guidato la coalizione che ha sostenuto la rivoluzione, aspirano infatti ad avere il ruolo politico ed economico di primo piano.

Al contempo, però, non sono neppure da trascurare gli interessi della Russia e, soprattutto, della Cina, attivissima dove ci sono risorse di idrocarburi da sfruttare e occasioni economiche “da prendere al volo”.

Infine, non vanno sottovalutate le ambizioni di “profondità strategica” della Turchia, che non hai mai nascosto le proprie mire di leadership in Medio Oriente e che poco prima della rivoluzione aveva siglato con il “vecchio” leader importanti accordi commerciali che spianavano la strada alle compagnie turche, con investimenti pari a circa 15 miliardi di dollari. Dopo una certa prudenza nel sostegno iniziale alle rivolte, il governo di Ankara è stato tra i primi a organizzare una visita ufficiale nella Libia post Gheddafi, rinsaldando così la sua immagine di potenza regionale volenterosa e mettendo una seria ipoteca sul suo possibile “futuro libico”.

I giochi sembrano dunque ancora aperti e il risiko quanto mai intricato. Probabilmente soltanto nei prossimi mesi, quando sarà eletta l’Assemblea costituente ma soprattutto quando anche la complessa situazione del Paese, ancora in parte in mano ai gruppi dei ribelli, sarà più nitida, sapremo chi sarà il vero vincitore della guerra per il petrolio della Libia.