In sfregio al diritto e alla consuetudine internazionale, l’India continua a trattenere i nostri marò. Passano i giorni e si avvicendano notizie sempre meno rassicuranti. Sia chiaro: l’impressione generale è che la vicenda avrà, alla fine, esito positivo. Ma proprio alla fine. Nel frattempo, sembra che l’Alta Corte di Kochi abbia deciso di sottoporci ad un estenuante prova di forza, connotata da rimbalzi, rinvii, aperture e ritrattazioni. Tanto per cambiare, ha procrastinato ulteriormente (a dopo Pasqua, ma a data da destinarsi) la decisione su quale giurisdizione applicare a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Che, dal canto loro, hanno stabilito di non rispondere agli interrogatori, non riconoscendo la giurisdizione indiana. E, mentre l’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Catherine Ashton, fa sapere che l’Unione farà la sua parte per arrivare a una soluzione, abbiamo fatto il punto con Franco Frattini. Che, ormai da tempo, sostiene la necessità di un coinvolgimento europeo.



Sembra che l’India stia agendo nell’assoluta impunità e nel diniego del diritto internazionale. Perché?

L’India è, sicuramente, un Paese democratico, con un sistema giudiziario indipendente e molto complesso. Contestualmente, il fatto di essere una delle prime potenze commerciali mondiali suscita il suo orgoglio nazionale e la spinge a usare gli strumenti giuridici di cui dispone per tutelare i propri interessi; anche quando, come in questo caso, rappresentano mere posizioni di principio in contrasto con le regole del diritto internazionale.  



Ci sono stati degli errori da parte nostra?

Di sicuro, i nostri marò non sono stati trascinati con la forza nel porto indiano, né le forze di sicurezza indiane hanno assaltato l’Enrica Lexie per obbligarla a lasciare le acque internazionali. E’ probabile, quindi, che nella catena di comando qualcosa non abbia funzionato. Occorre capire che cosa. Gli errori all’inizio della vicenda ci hanno introdotto in una spirale giuridica complicata, ove occorrerà individuare gli strumenti idonei a uscirne.

Crede che il ministro degli Esteri e la rappresentanza diplomatica stiano compiendo tutti i passi necessari?



Si sarebbe dovuto, fin da subito, europeizzare la crisi. E presentare le nostre istanze anche in sede Onu. Denunciando la violazione del diritto internazionale, a fronte del coinvolgimento dei nostri militari in una missione antipirateria fortemente voluta dalle Nazioni Unite e dell’Europa.

Cosa significa, concretamente, europeizzare la crisi? Il caso è tale da far ritenere agli esperti improbabile l’attribuzione della competenza ad istituti giuridici quali la Corte europea dei diritti dell’uomo o la Corte di giustizia; e ancor meno l’Ue o l’Onu possono emanare sanzioni contro lo stato indiano.

In effetti, è così. Europeizzare la crisi significa far valere un principio di solidarietà politica e non uno strumento tecnico giuridico. Mi riferisco, in particolare, all’importanza delle costanti relazioni tra Ue ed India. Ci sono, ad esempio, dei summit periodici tra Europa e Stato indiano dove potrebbero esser fatte valere le nostre ragioni. Dovrebbe, inoltre, scattare da parte europea un meccanismo di difesa analogo a quello della Nato laddove uno dei suoi membri venga attaccato da un altro Paese. Qui, ovviamente, non siamo in presenza di un attacco militare, ma di una controversia giuridica. Che, tuttavia, riguarda un principio universale e non bilaterale.

A quale principio, quindi, dovremmo appellarci?

Secondo il diritto internazionale, i militari godono dell’immunità e le loro azioni vanno imputate al Paese di provenienza, cui spetta il compito di giudicarli. Il canale politico europeo avrebbe il vantaggio di attirare l’attenzione del mondo sul fatto che uno tra i Paesi emergenti che vuole intestarsi un ruolo politico a livello globale, sta commettendo una violazione inaccettabile sul fronte del diritto internazionale.

Al di là dei summit, quale sarebbe il soggetto in sede europea più indicato per seguire la vicenda?

Sicuramente il Consiglio europeo, cui spettano le decisioni in materia. Alla Commissione spetta, invece, il compito fondamentale di preparare il terreno; in particolare, il Dipartimento giustizia della Commissione europea ha tutti gli strumenti per predisporre una documentazione che dimostri in tempi molto rapidi le fondate ragioni giuridiche dell’Italia.

In sostanza, l’India si è stufata di venir considerata “semplicemente” un Paese che cresce del 10%. L’Europa, in sede di trattativa, può garantirgli come contropartita una legittimazione politica?

Certo: se l’Europa riconoscesse all’India la capacità di aver saputo far prevalere, in questa vicenda, le ragioni del diritto internazionale, per il governo di New Delhi rappresenterebbe un’acquisizione di credito politico non indifferente.

I marò non stanno rispondendo agli interrogatori perché affermano di non riconoscere la giurisdizione indiana. Fanno bene?

Stanno facendo molto bene. Accettare l’interrogatorio coinciderebbe con la negazione del fatto che l’India sta violando il diritto internazionale.

Come prevede che si concluderà la vicenda?

Credo che il diritto internazionale sarà riaffermato e che i nostri marò torneranno a casa per essere giudicati dalla giustizia italiana. L’unica preoccupazione è sui tempi. Il loro accelerarsi dipenderà dall’eventuale coinvolgimento dell’Europa.

 

(Paolo Nessi)

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