“Il golpe militare e la secessione nel nord del Mali, che dai primi anni 90 era una democrazia consolidata, è una conseguenza della caduta di Gheddafi”, provocata dall’intervento armato della Nato il cui obiettivo era proprio “esportare” la democrazia in Libia. Un vero e proprio paradosso, spiegato a Ilsussidiario.net da Jean-Leonard Touadi, parlamentare del Pd e studioso dell’Africa nera. Da un mese il Mali sta attraversando una pericolosa guerra civile, dopo che l’esercito ha destituito il presidente legittimo, Amadou Toumani Touré. Il politico era accusato di non avere fatto abbastanza per contrastare la ribellione dei tuareg nel nord del Paese, e aveva accettato di dimettersi annunciando nuove elezioni. La Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) ha indetto un embargo totale contro il Mali. Dopo le dimissioni del capitano golpista, Amdou Sanago, il Mali resta spaccato in due, con il nord in mano a quattro fazioni ribelli. Come sottolinea Touadi, “il deserto del Sahara, un tempo confine naturale tra Stati, oggi è attraversato sempre più spesso da mercanti d’armi e guerriglieri estremisti, che hanno approfittato dell’instabilità in Libia per muoversi più liberamente e destabilizzare anche il democratico Mali”.
Onorevole Touadi, condivide la netta presa di posizione dell’Ecowas contro i golpisti del Mali?
Sono pienamente soddisfatto sia per quanto riguarda le dichiarazioni dell’Unione africana sia per quelle dell’Ecowas, che hanno condannato il colpo di Stato. Condivido quindi il principio, perché dal 1990 i Paesi africani sono impegnati in un interessante processo di democratizzazione, pur con luci e ombre, successi e insuccessi. Nel corso degli ultimi anni, il Mali è stato il Paese dove questo processo di democratizzazione della società e del Paese era particolarmente riuscito. Dopo le elezioni, sono state realizzate ben due o tre successive alternanze di governo avvenute in modo estremamente pacifico, con un riconoscimento reciproco da parte dei partiti. Il golpe quindi è un duro colpo inflitto non solo al Mali ma a tutta l’Africa. Sono dunque d’accordo con il messaggio di fermezza dell’Ecowas, il cui obiettivo è affermare il principio dell’irreversibilità dei processi di democratizzazione.
Immagino quindi che condividerà anche la decisione di indire l’“embargo totale” …
Invece non è affatto così. Per quanto riguarda le sanzioni dell’embargo, l’esperienza in Burundi e in Zimbabwe ha insegnato che a pagarne i costi non sono le classi dirigenti, che hanno sempre dei mezzi per riuscire ad aggirarlo, bensì le persone più umili che per i suoi effetti si trovano ad affrontare delle condizioni di vita ancora più dure del normale.
Quali sono le ragioni profonde per cui si è scatenata la guerra civile in Mali?
In pochi hanno misurato pienamente le conseguenze degli sconvolgimenti che la guerra in Libia ha prodotto sui Paesi immediatamente a ridosso del deserto. La disintegrazione del regime di Gheddafi ha creato una grave instabilità nell’intera regione sub sahariana.
Tra la Libia e il Mali ci sono di mezzo l’Algeria e alcune migliaia di chilometri di deserto. Che cosa c’entrano tra loro i due Paesi?
In primo luogo li unisce il ritorno nei loro Paesi d’origine dei migranti sub sahariani che soggiornavano in Libia, e che erano stimati nell’ordine tra un milione e un milione e mezzo di persone, secondo alcuni anche due milioni. Di questa massa di migranti, in pochissimi sono riusciti ad approdare in Europa, mentre la maggior parte ha vagato da un territorio all’altro di questa sconfinata frontiera desertica nella quale esiste una grande facilità di circolazione delle armi. Dopo la caduta di Gheddafi, i vari gruppi anche estremisti hanno avuto la strada libera per addestrare e armare i migranti sub sahariani, che sono diventati un elemento di destabilizzazione.
Ma il colpo di Stato in Mali non è nato da problematiche interne?
La scusa, o meglio il pretesto è stata l’inefficienza del governo del presidente in carica, Amadou Toumani Touré, nel contrastare la ribellione tuareg. Non a caso da quando i militari sono arrivati al potere, hanno conquistato tre delle principali città del nord, Kidal, Gao e Timbuctu, quest’ultima anche altamente simbolica per la sua notorietà. Anche se in realtà il vero obiettivo dei militari non è una migliore preparazione del Paese nell’affrontare la ribellione tuareg, bensì prendere il potere per poi mantenerlo.
Che cosa insegna all’Occidente ciò che sta avvenendo in Mali?
E’ la dimostrazione di quanto la nostra capacità di analisi dell’Africa dipenda ancora dal 900. L’Occidente continua a parlare di “Primavera araba”, dimenticando che in realtà da decenni il deserto del Sahara non rappresenta più una barriera. Esiste una porosità delle frontiere sempre più elevata, dovuta alla pressione migratoria e agli scambi economici tra il Nord Africa e il resto del continente. E’ dunque totalmente fuorviante un approccio come quello occidentale, che tende a isolare i Paesi della Primavera araba dal Sud del Sahara. Qualsiasi intervento dell’Unione europea nell’“Africa Bianca” che prescinda dal resto del continente sarebbe inutile, perché non terrebbe conto della complessità e della interconnessione che il deserto non impedisce più.
Lei a quali tipologie di intervento si riferisce?
Quando l’Europa parla di investimenti economici e di partnership con i Paesi della Primavera araba, dimostra di avere un atteggiamento anacronistico e superato. E’ l’Africa che deve essere presa in considerazione in tutta la sua interezza e globalità. Qualsiasi intervento nel Nord del continente, anche di rafforzamento della democrazia, è destinato a fallire se ignora il fatto che questi Paesi sono soggetti a una pressione migratoria di proporzioni epiche proveniente da Sud.
(Pietro Vernizzi)