Nel suo ultimo viaggio in Cina il Premier Monti non ha mai parlato di diritti umani. Ha fatto bene a privilegiare le ragioni economiche e a evitare tutto ciò che potrebbe creare intralcio agli investimenti di cui l’Italia ha tanto bisogno, oppure ha fatto male ratificando un’ingiustizia e ha reso meno saldi i diritti umani inviolabili che, secondo la nostra tradizione, appartengono a ogni uomo, indipendentemente dalla sua condizione economica, dai suoi convincimenti culturali e religiosi?
Difficoltà di una risposta
La prima constatazione è che non solo Monti non ne ha parlato, ma che nessuno ha sollevato il problema. Non è che tutti condividano l’operato di Monti e che tutti siano a favore di una politica che privilegia gli affari, ma anche quelli che sono di parere opposto non se la sono sentita di intervenire. Come mai questo silenzio? Quali dubbi sono sorti dentro tante persone e istituzioni che solitamente non perdono alcuna occasione per far sentire la loro voce?
Da un lato si avverte la sterilità di una predica fatta a casa di altri, quando anche noi avremmo tante cose su cui potremmo essere rimproverati. Inoltre, la Cina ha più volte ribadito che, in un Paese popoloso come il suo, il primo diritto umano è il diritto all’alimentazione e pertanto alcune “scorciatoie”, che fanno storcere la bocca a noi occidentali, sono il metodo più adeguato per rispondere alle esigenze locali. I successi economici conseguiti sono, secondo i dirigenti cinesi, la prova che sono nel giusto e che stanno tutelando, con i fatti e non con le parole, i diritti umani fondamentali.
Dall’altro lato si avverte il rischio implicito nell’accettare il ricatto: se per accelerare lo sviluppo economico si rinuncia ad alcuni diritti fondamentali, uno sviluppo costruito su tale assenza non consentirà facilmente il loro reinserimento. Se il valore della vita è riducibile all’aspetto economico come si potrà farla ritornare a essere sacra e inviolabile? Se lo sviluppo economico richiede il taglio della memoria, lo sradicamento di milioni di persone, la repressione del Tibet, la forte limitazione della libertà religiosa, come si potrà rimediare a queste mutilazioni? Se queste sono limitazioni che frenano quasi tutti dal prendere posizione non finiremo per renderci complici di una diminuzione di umanità che, se anche avviene in un Paese geograficamente lontano, ci riguarda da vicino?
Una risposta adeguata
Può nascere solo facendosi carico della domanda ed evitando di esternalizzarla, cioè di predicare ad altri quello che noi per primi non facciamo. L’unica risposta vera può essere una testimonianza di un’alternativa non solo possibile, ma preferibile perché più vera e ultimamente più adeguata sia per noi che per la Cina. La risposta è che sviluppo economico e diritti umani sono le due facce della stessa medaglia. Non ci può essere un vero sviluppo se non fondato nel rispetto della persona umana. Le “scorciatoie”, anche se nel breve possono generare l’illusione di funzionare, nel lungo periodo si rivelano costose e con molte ricadute negative come innumerevoli esempi storici possono dimostrare.
Tutta la nostra storia, la nostra cultura, stanno a dimostrare che il vero, il bello e il buono sono la prima fonte della nostra ricchezza. Le piazze, gli ospedali, le università, i tesori d’arte, le strutture sociali e le opere che abbiamo saputo creare nei secoli sono, pur con tutti i loro limiti e imperfezioni, la dimostrazione che l’uomo stesso è fonte di ricchezza e rispettarne i diritti non è solo giusto e necessario, ma anche conveniente. L’attuale crisi e le difficoltà che siamo chiamati ad affrontare nascono proprio dal tradimento o quanto meno dall’oblio di quei valori fondativi.
Mentre noi stiamo smarrendo le nostri radici e sembriamo ogni giorno più incapaci di testimoniare i nostri valori, paradossalmente il funzionari del Partito comunista cinese (Pcc), dopo aver lungamente studiato i vari modelli economici evidenziandone per ognuno punti di forza e di debolezza, sono giunti a conclusioni estremamente interessanti. Per spiegare il successo del modello europeo, dopo aver scartato molte altre ragioni, hanno dovuto ricorrere a molte categorie cristiane quali: accoglienza e attenzione agli ultimi; accettazione del proprio limite, importanza della comunità e delle tradizioni; perdono quale fattore di reinserimento e riduzione degli sprechi dovuti all’esclusione; gratuità, cultura del dono.
Nella sintesi arrivano ad affermare che è proprio la cultura cristiana il principale fattore in grado di spiegare la differenza di sviluppo tra l’Europa e altri popoli. Si tratta di documenti piuttosto riservati e non divulgati al largo pubblico, ma i dirigenti cinesi ne sono a conoscenza e li tengono in debita considerazione. Peccato che siamo noi i primi a non crederci e a non praticarli. Provate a pensare se dimostrassimo, con i fatti e non con le parole, che ai diritti umani ci teniamo e ci impegnassimo concretamente nel cambiare dove oggi sono traditi e misconosciuti.
Il dibattito sulla Cina e sui diritti umani potrebbe essere una grande occasione se, anziché predicare agli altri, cominciassimo a cambiare noi. Sarebbe una risposta vera e non ideologica. Sarebbe il miglior contributo che possiamo dare a noi stessi e alla Cina dimostrando, con i fatti, che non c’è conflitto ma comunanza di interessi e la radice di questa comunanza sta nella tutela dei diritti umani. Si tratta, però, di un discorso difficile e che implica una personale assunzione di responsabilità. Per questo non mi stupisco che nessuno ne parli e prevedo che si continuerà con la vecchia abitudine di predicare agli altri piuttosto che rimboccarci le maniche e fare quanto potremmo e dovremmo.