Siamo arrivati al punto che – con la tecnica tanto più irritante delle notizie fatte circolare ufficiosamente – la Bce si permette di dare indicazioni in dettaglio al nostro governo su che cosa debba fare per ridurre la spesa pubblica, come ad esempio accorpare le province e così via. Dovrebbe essere chiaro che nel quadro delle sue competenze la Banca centrale europea ha titolo per chiederci di ridurre la spesa pubblica, ma non per dire al nostro governo come deve farlo.



Se dunque da Francoforte se lo permettono è perché contano sulla docilità di Palazzo Chigi, mentre  di certo non oserebbero fare altrettanto le maestrine con altri paesi membri del’Unione. Senza pregiudizio per l’auspicabile prospettiva della riforma delle province, sta all’Italia e non alla Banca Centrale Europea decidere che cosa farne. Vi immaginate, tanto per fare un esempio, che cosa succederebbe se messaggi del genere venissero spediti a Berlino? L’episodio conferma ancora una volta che, oggi come oggi, le istituzioni dell’Unione europea tendono a trasformarsi in un centro di potere tecnocratico autoreferenziale: un processo che in nome della libertà e della democrazia deve essere vigorosamente  contrastato. Più che mai in una situazione come quella che stiamo vivendo il mito dell’Europa (intesa in effetti come Nord Europa) non ci è affatto di aiuto.



Già i precedenti governi italiani avevano tutti quanti avuto il torto di far stare l’Italia nell’Unione in punta di piedi, come se il nostro Paese non avesse sulla scena europea niente di suo di importante da portare e niente di suo di importante da difendere. Adesso tale complesso d’inferiorità è giunto al diapason dal momento che l’attuale governo è una tipica espressione di quell’ampio segmento della classe dirigente italiana che la pensa proprio così (il che è più che mai assurdo se si considera che senza l’Italia l’Europa non esiste né sul piano storico-culturale, né sul piano geo-politico e nemmeno su quello delle istituzioni europee, di cui siamo membri fondatori).



Nel momento di grave crisi economica internazionale che stiamo vivendo tutto ciò, dicevamo, non ci è affatto di aiuto. Il Nord Europa è raggelato e il suo contatto ci raggela. Tende a rinchiudersi e a rinchiuderci. Spera troppo dagli Stati Uniti che oggi, benché siano ancora un grande attore dell’economia mondiale, non sono più in grado di esserne la locomotiva: al massimo possono tirare se stessi ma non riescono più a tirare gli altri. Senza battere nuove strade non se ne viene fuori, e l’Europa mediterranea è la meglio posizionata per cercarle.

In questa prospettiva vale la pena di considerare dei dati tanto importanti quanto ignorati dalla stampa italiana, che sempre più si sta riducendo a distributore al dettaglio di luoghi comuni confezionati altrove. Il Medio Oriente, il Nordafrica, l’Africa e l’America Latina hanno risentito poco o niente della crisi e stanno continuando a crescere. Malgrado le conseguenze dell’attacco alla Libia, dei cambi di regime e della persistente crisi siriana si prevede che quest’anno l’economia dell’area Medio Oriente-Nordafrica crescerà di oltre il 4 per cento. Continuerà a crescere anche l’Africa sub-sahariana, che l’anno scorso ha fatto registrare perfino tassi di sviluppo a due cifre fino al dato clamoroso del Ghana, +22 per cento. L’America Latina è ininterrottamente in crescita dal 2003, pur con una flessione nel 2008-2009, ed è previsto cresca quest’anno del 4,1 per cento.

Infine in Asia, mentre la Cina, molto legata alle sorti dei mercati statunitense ed europeo, ha rallentato, i Paesi che hanno invece puntato sullo sviluppo del loro mercato interno, in primis l’India, l’altro gigante demografico, continuano a svilupparsi. Si aggiunga che soltanto un rinnovato interscambio euro-latinoamericano e euro-africano possono controbilanciare la presenza spesso aggressiva e perciò poco gradita della Cina sui mercati delle materie prime dell’America Latina e dell’Africa.

Per sé e anche per il resto dell’Unione europea il nostro Paese avrebbe una ruolo primario da giocare in questa partita, ma per questo occorrono un progetto e una politica estera che oggi purtroppo non ci sono.

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