Il suo aver confessato immediatamente nel momento dell’arresto il delitto e averne spiegato le motivazioni, non lo renderà certo migliore ai nostri occhi. L’operaio indiano che ha strangolato la moglie incinta e l’ha gettata nel Po, laddove il povero corpo straziato della donna è stato ritrovato dopo una settimana, non ha certo compiuto qualcosa di nuovo nel panorama del multiculturalismo deviato e malato che si respira in Italia.



La mente che ha armato la mano di Singhj Kulbir non risiede solo all’interno della sua testa. La comunità indiana, come tante altre in Italia, spesso passa per silenziosa e quindi pacifica. Ma l’apparenza inganna. Le comunità hanno mura invalicabili e portoni sbarrati per chi non accetta di sottostare alle regole ferree imposte dall’élite dominante. E a farne le spese sono sempre e comunque le donne, che per sopravvivere sono costrette, qualsiasi sia la loro nazionalità o credo religioso, nell’ombra di mariti o padri che le tengono incatenate alla propria chiusura mentale ormai irrimediabile.



La storia della donna indiana che oggi riempie le cronache dei media è particolarmente odiosa. Ma fa al contempo riflettere. Lei scompare per sette giorni. Nessuno la cerca, nessuno avverte la polizia, nessuno si fa delle domande sulla sua sorte. Anzi, forse qualcuno la domanda se la sarà anche fatta e pensando che era “quella che sorrideva troppo agli italiani”, magari era meglio se non tornava per niente. L’omertà può non essere solo quella della criminalità in questo Paese. L’omertà dell’omicidio con aggravante culturale è la malattia che in queste comunità chiuse, oppresse, spente nella loro vivacità umana, sta soffocando ogni soffio di libertà e di progresso. Lascia una bambina di cinque anni Kaur Balwinde, che in un sol colpo perde madre e padre.



Il capolavoro della follia estremista multiculturale è servito. Non si fa a tempo a iniziare un processo che già siamo a piangere un’altra vittima che paga il fio con vita alla barbarie multiculturale. È un vortice di violenza che gira su sé stesso in continuazione, fagocitando fatalmente vite e diritti, donne e famiglie, figli e futuro. E chissà quante altre donne sono scomparse ma la loro sorte non è dissimile da quella di Kaur.

Anche per il processo che si aprirà contro il marito di quest’ultima martire del multiculturalismo e dell’indifferenza, l’associazione Acmid Donna sarà parte civile al fianco di chi non può più parlare, ma ha diritto ad ancora maggiore protezione perché la sua voce ha smesso di gridare e il suo cuore ha smesso di battere. Ma in noi vive ancora, sempre più forte e spregiudicato. Queste donne sono il simbolo di un male che si sparge ma anche di una speranza che divampa come un fuoco sulla cima della montagna, dando luce a tutta la valle che non vede mai il sole. Con la loro morte illuminano la scena, per poi lasciare spazio al dolore e alla battaglia per i loro diritti e per la memoria di come vissero e di come morirono.

 

In questo la politica, la società civile e l’opinione pubblica non ci sono. Sono assenti e il vuoto è grande, tale da non poter essere colmato e da lasciare sempre campo libero a chi vorrebbe tramutare la nostra società in un enorme incubatore di repressione e oppressione multiculturale. Hina, Sanaa, Rachida, Kaur e tante altre donne, sono vittime dell’indifferenza e del sonno della ragione in cui l’Italia e l’Europa vivono la modernità, dove se non c’è un buco della serratura da osservare morbosamente non c’è notizia. Dove se non c’è scandalo non c’è riprovazione sociale. E le donne immigrate, al pari di quelle italiane vittime di una violenza senza freno, continuano a gridare nel vuoto, ascoltando l’eco della propria voce. Il che non fa altro che raddoppiare la loro solitudine e la sensazione che un giorno la morte colpirà anche loro.