Si dice che nemmeno Dio sappia quante congregazioni di suore ci siano sulla terra. Questa barzelletta, ovviamente, non corrisponde a verità. Si dice che Bam Ki-Moon, segretario generale delle Nazioni Unite, non sappia quante agenzie, sotto-agenzie e segreterie esistano in seno all’organizzazione da lui diretta. Questa, al contrario, temo proprio costituisca un’amara, spesso inutile e sicuramente costosissima realtà. Chissà se c’erano tutte alla conferenza ONU sullo sviluppo sostenibile tenutasi in questi giorni in Brasile. L’hanno chiamata “Rio+20” perché nella stessa città si tenne una storica assemblea nel 1992.



Le statistiche raccontano di quasi 40.000 persone accreditate tra delegazioni governative, rappresentanti della società civile e, appunto, funzionari di un numero indefinito di agenzie tra cui alcune che personalmente non avevo mai sentito nominare. Una babele di culture, interessi, lingue, motivazioni. Da una parte c’erano le negoziazioni fino a notte fonda tra i delegati di 179 governi per approvare un testo che come sempre non ha soddisfatto nessuno se non gli organizzatori che hanno spinto per arrivare alla firma di un accordo qualsiasi, ma che alla fine non sono riusciti ad evitare l’infamante etichetta del fallimento affiancata al “marchio” Rio+20. Da un’altra parte c’erano incontri sui temi più svariati organizzati da banche di sviluppo, organizzazioni governative e non governative, sponsor vari. Tutti insieme appassionatamente. Da un’ultima parte associazioni, movimenti ambientalisti, animalisti, dei diritti umani che hanno organizzato concerti, esposizioni, manifestazioni di protesta, concerti, testimonianze. Si sono visti monaci buddisti accanto a manager in carriera; africani in doppiopetto e cravatta accanto ad attivisti con i capelli grigi incolti e vestiti tipo manifestazioni anni ’60 contro la guerra in Vietnam.



Sullo sfondo, una città oggettivamente bellissima. Forse la più bella del mondo. Con quel Cristo commovente che ti accoglie a braccia aperte, spiagge meravigliose, montagne che spuntano come funghi in mezzo al mare o alle case. Come la conferenza, anche lo sfondo presenta, però, un contrasto e cioè l’ineludibile presenza delle favelas: centinaia di migliaia di abitanti uno sopra l’altro che “sono” anch’essi Rio de Janeiro.

Anzi, sono loro i veri carioca. La situazione – sostengono amici che ci vivono da anni – è molto migliorata: governo e municipio hanno investito molto, la polizia ha liberato le favelas dai narcotrafficanti, la criminalità si è drasticamente ridotta. Ma le favelas ci sono ancora perfino a Copacabana che i più conoscono (retaggio cinematografico ndr) per la famosa spiaggia e l’assolutamente immeritata fama delle belle e discinte ragazze. Continuando con i contrasti, in Brasile si respira e si osserva un’aria di speranza nel futuro con progetti mastodontici, ingenti risorse, grandissimo interesse da parte degli investitori. L’altra faccia di questa medaglia è costituita dall’organizzazione, dalle infrastrutture e dai servizi logistici –  aeroportuali in primis – non certo all’altezza della quinta potenza economica mondiale e di una città che nel 2014 ospiterà la coppa del mondo di calcio e nel 2016 addirittura le Olimpiadi.



Per tornare alla conferenza ONU posso raccontare di aver partecipato ad alcuni incontri istituzionali organizzati dalle suddette varie agenzie. I volti di tanti di questi funzionari, esperti mondiali, gestori di carte e report, promotori di significanti-tormentoni, sono ugualmente inespressivi. I loro discorsi costituiscono troppo spesso contorsioni verbali senza riferimenti concreti: “inclusivo”, “sostenibile”, “partecipativo”, “biodiversità”, “economia verde”, “investimenti nel capitale naturale”… Termini posti l’uno a spiegazione dell’altro all’interno di una stessa frase. Confesso che la realtà ha superato il mio pregiudizio. Intendiamoci: ci sono fior fiore di professionisti, persone realmente interessate ed idealisti concreti tra questi esperti; conferenze, teorie, protocolli e accordi sono fondamentali; Rio-1992 fu storica, Kyoto trattò temi vitali. Il problema, però, è che questo meccanismo gigantesco fatto di produzione di carte, conferenze, teorie, megaprogetti, ecc. rischia di dimenticare che, come dicevano Leopardi e don Sturzo: l’uomo è prima individuo e poi popolo! In queste conferenze, invece, l’uomo sembra soppiantato dalla “problematica”, dallo slogan-buonista e da interessi economici o particolari che appaiono dietro ogni angolo.

Al contrario, quando ci si imbatte in qualche organizzazione della società civile, tipo associazione di abitanti delle favelas, di indios o di donne discriminate, di animalisti o di ambientalisti ideologici, pur potendo non condividere la loro battaglia, si sente vibrare una passione, magari una rabbia ingiustificata e mal gestita, per storie vissute, casi concreti, uomini in carne ossa con idee ed esperienze. Si sente pulsare la realtà. Certo ugualmente tanti di questi rappresentanti della società civile se si staccano dalla loro realtà, diventano gestori di budget, progetti, report, dossier o, se va bene, schiavi di un’ideologia. E la prima cosa che perdono di vista è il sano buon senso comune.

Tra gli attori di Rio+20 vi erano poi schiere di consulenti esterni. Mamma mia quanti sono! Pare, infatti, che queste migliaia di agenzie non siano nemmeno autonome. A mio avviso, i consulenti sono i più etici, nel senso che almeno non si spacciano per idealisti o non credono veramente di salvare il mondo. E’ il loro lavoro. Lo fanno bene. Li pagano. Punto.

Ma gli attori più ricercati di Rio+20 sono stati come sempre i rappresentati dei Paesi in via di sviluppo alla ricerca di finanziamenti ed intenti a presentarsi come casi di successo all’agenzia di turno. Così eccoli infarcire le loro proposte di legge, conseguenti powerpoint e discorsi, dei succitati tormentoni linguistici. Al solo sentirli gli esperti mondiali entrano in estasi. “Abbiamo individuato un processo di transizione all’economia verde che dovrà essere inclusivo, partecipativo, sostenibile, investirà nel capitale naturale e difenderà la biodiversità”.

Nei prossimi giorni, il direttore dell’agenzia di turno firmerà l’assegno (di soldi non suoi, ma delle tasse dei lavoratori del mondo, tanto per non dimenticarcelo mai Ndr) a favore dello stato tanto diligente. Il ministro africano che ha pronunciato l’ammaliante frase tornerà a casa vittorioso sventolando l’assegno.

 

Il giorno dopo siglerà un accordo con i cinesi per lo sfruttamento di una foresta protetta in cambio della costruzione dell’aeroporto in una zona individuata senza alcuno studio di impatto ambientale, sfrattando 20.000 favelados dalle loro case che verranno rase al suolo e portandosi a casa il solito 10% di mazzetta – se va bene – per sé e per la sua grande famiglia. Dopo due giorni dovrà mettere a tacere alcune associazioni che si lamentano di una multinazionale che sta inquinando un villaggio di pescatori. La stessa multinazionale che gli – o meglio al figlio o cugino – ha intestato una villa con piscina nella zona chic della capitale.

Per concludere, mi sembra doveroso commentare il tema della conferenza Rio+20 e cioè lo sviluppo sostenibile. Lo faccio citando un ottimo intervento del ministro della Pianificazione e Sviluppo della Repubblica del Mozambico. Rispondendo ad un esperto che aveva arzigogolato una domanda del tipo “Come far diventare normalità, politica di tutti i giorni per una nazione, questi bei progetti sull’economia verde e  sostenibile?”, il ministro ha fatto presente che nel suo paese circa il 70% della popolazione è dedito all’agricoltura. Questa gente sa molto bene cosa significhi sostenibilità, biodiversità, investimento nel capitale naturale anche senza usare queste precise parole. “Il problema è farlo capire a governanti ed agli amministratori locali”.

Forse, la prossima volta, invece di una conferenza fallimentare converrebbe organizzare una bella gita nelle campagne della bassa bergamasca o del Mozambico. Certo, forse qualcuno di questi massimi esperti mondiali dovrebbe passare sei mesetti a dissodare il terreno con la zappa ed a mungere a mano, ma sono sicuro che alla fine capirebbero perché in fondo non sono poi così biodiversi dai contadini mozambicani o bergamaschi.

 

 

(di Ambrogio Fumagalli