La Comunità internazionale, attraverso un percorso scandito da una serie di conferenze internazionali negli anni novanta – Rio de Janeiro su Ambiente e Sviluppo, 1992, di cui si sono celebrati quest’anno i venti anni con la conferenza di Rio+20 sullo Sviluppo Sostenibile; Cairo su Popolazione e Sviluppo, 1994; Pechino sulle Donne, 1995; Copenhagen sullo Sviluppo Sociale, 1995; Istanbul sugli Insediamenti Umani (Habitat II), 1996 – ha preso l’impegno di creare un “mondo migliore”. Tale impegno si è tradotto, sinteticamente e simbolicamente, in otto Obiettivi del Millennio da raggiungere entro il 2015: sradicare la povertà estrema e la fame; rendere universale l’istruzione primaria; promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne; ridurre la mortalità infantile; migliorare la salute materna; combattere l’Hiv/Aids, la malaria ed altre malattie; garantire la sostenibilità ambientale; sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo. Questa è l’infrastruttura sociale che la Comunità internazionale si è data.  



Risulta tuttavia evidente che tali obiettivi non verranno raggiunti entro la data prefissata, sia per ragioni congiunturali – crisi alimentare ed economico-finanziaria – sia per un problema strutturale, dettato dal modo di concepire gli aiuti. Inoltre, l’esperienza ci dice che l’infrastruttura sociale di per sé non è sufficiente: occorre un aggancio tra la singola persona e l’infrastruttura stessa (un accesso, un gateway, un hub). Poiché questo aggancio dipende inesorabilmente dall’iniziativa personale, risulta essere il punto debole per le persone più fragili e che vivono nell’informalità e nella solitudine. 



Questo compito, di una relazione con le persone più fragili, è sempre stato svolto dalla comunità di appartenenza. Tuttavia, il solidificarsi di tale infrastruttura sociale richiede che la relazione diventi sistematica: per questo, la comunità si organizza con strutture di servizio, ossia corpi intermedi e organizzazioni della società civile (Osc). Queste permettono che la persona, anche la più fragile, si “agganci” alla compagnia umana e quindi alla infrastruttura sociale. In altre parole, l’ultimo miglio dell’infrastruttura sociale è realizzato e mantenuto dalle organizzazioni della società civile. 



Attenzione: questo rapporto inclusivo porta alla società e alla comunità la ricchezza delle persone altrimenti escluse. Generalmente percepite come un “costo sociale” o un “peso”, le fasce fragili, i popoli in via di sviluppo e le minoranze,  si prospettano invece come la vera risorsa per il futuro, specie per il nostro mondo in crisi e in ricerca di nuovi paradigmi. Per questo una crescita che voglia essere inclusiva deve valorizzare i corpi intermedi e il compito fondamentale di essere l’ultimo miglio verso la persona. 

Esistono 4 criticità su questo percorso:

Le Osc devono essere espressione di una base, di una comunità. Oggi vengono spesso intese come meccanismi sociali, ma questo non farebbe che montare ulteriori pezzi dell’infrastruttura allontanandola dalla persona. Una Osc svolge il ruolo di hub se appartiene ad una comunità e ne condivide i valori e ne è sua espressione. Spersonalizzarla significa semplicemente farne un pezzo meccanico.

Le Osc devono rimanere anello di congiunzione tra le persone e la società. Se si sganciano da questo compito per identificarsi con soggetti che definiscono politiche o che controllano (watch dog) l’infrastruttura sociale, si separano anche dalla comunità e dalla persona. Diventano altro. Anche se con il contributo teorico di una Osc si potrà migliorare l’infrastruttura sociale, staccandosi dalla comunità e dalla funzione di nesso tra la persona e la società, una Osc s’inaridisce.

Le Osc devono qualificarsi sempre più nel servizio reale alla persona e nella propria capacità gestionale.

Le politiche e i programmi che costituiscono l’infrastruttura sociale devono riconoscere che per portare a termine la loro fondamentale missione hanno bisogno dell’ultimo miglio, che non è assorbibile nell’infrastruttura stessa. Se manca tale riconoscimento l’ultimo miglio resta inadempiuto. 

Benedetto XVI ha parlato di innata o nativa dignità di ogni essere umano, magari coperta dalla miseria, dalla malattia, o dalla fame. Se non si riscopre questa innata dignità che rende la persona protagonista, unica, di fronte al mistero del vivere, non può iniziare lo sviluppo. Per fare ciò, non serve dirigismo o statalismo a livello internazionale che pretende di risolvere tutti i problemi. Bisogna, invece, valorizzare le forme libere di associazione, di autorisoluzione dei problemi, le realtà che erogano servizi alla persona o di pubblica utilità. Tali realtà vanno valorizzate perché sono espressione del mistero dell’essere umano. La tendenza dell’attuale sistema di erogazione degli aiuti allo sviluppo attraverso il Budget Support – ossia il finanziamento diretto agli Stati – non consente il supporto di quelle organizzazioni della società civile che operano efficacemente sul campo da prima che lo Stato, così come viene oggi concepito, esistesse. 

Questo avviene in particolar modo nel continente africano. Un approccio sussidiario richiederebbe invece alla comunità internazionale di riconoscere la loro presenza come, appunto, quell’ultimo miglio necessario affinché la persona sia effettivamente origine e scopo dell’intera infrastruttura sociale. Come ricordato nella Caritas in Veritate, “il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno”.

Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte, citando don Orione, scrive: “Occorre una nuova fantasia della carità”. Provando ad esercitare così questa “fantasia”, la cooperazione allo sviluppo non potrà più essere segmentata fra i diversi ambiti e i diversi attori, ma dovrà essere una cooperazione di sistema in cui le istituzioni, il non profit, le imprese e la ricerca – nella distinzione dei ruoli – lavorino insieme. Questi sono i quattro pilastri che devono sostenere la piattaforma della cooperazione del terzo millennio. 

Se caliamo tutte queste considerazioni nella realtà italiana, ci imbattiamo subito con una legge che regola la materia della cooperazione italiana datata 1987 (legge 49/87). Parliamo di una legge fatta due anni prima della caduta del muro di Berlino. Da allora ad oggi il mondo è radicalmente cambiato. Nonostante molti tentativi di riforma, solo in questi giorni sembra essere in fase di discussione finale un disegno di legge di riforma. I relatori Mantica e Tonini sono due persone che sanno di cosa parlano e conoscono bene la materia e i passi di cui si parla. Viene da dire: speriamo sia la volta buona, e ci permettiamo di fare qualche considerazione sperando che si proceda senza indugio, evitando inutili polemiche.  

La riforma incardina al ministero degli Esteri, come è istituzionalmente logico, le attività di cooperazione internazionale, esprime una figura politica di indirizzo attraverso un viceministro delegato dal ministro degli Esteri, e ristabilisce il ruolo di controllo e indirizzo del Parlamento. Ci sono alcune questioni che meritano una attenzione critica. La prima riguarda la istituenda “agenzia di cooperazione”, che finalmente rompe molti tabù all’interno della tecnocrazia dedicata. Tale agenzia deve però favorire la cooperazione di sistema e non essere attore diretto di azioni o attività, fatto salvo per situazioni di emergenza. In secondo luogo, tutto questo esercizio di riforma avrà poco senso senza adeguate risorse e un reale potere di coordinamento dei diversi centri di spesa sulla cooperazione internazionale, in primis quello del ministero dell’Economia e delle Finanze.  Da ultimo, questa riforma risulta carente nelle politiche di integrazione delle comunità straniere presenti in Italia, pur riconoscendole come un soggetto di cooperazione. 

Insomma, ci auguriamo che l’“agenzia” svolga il ruolo di facilitatore del Sistema Paese secondo una sana sussidiarietà, e non una tecnocrazia mascherata.