Pakistan: un padre, dopo aver cercato di avvelenarla, ha sepolto viva la propria figlia di soli due giorni. Il motivo? Aveva alcune deformazioni sul viso: non mi piaceva la faccia che aveva, avrebbe dichiarato. La piccola, secondo quanto hanno confermato i medici che l’hanno fatta nascere, “aveva una testa piuttosto grande e lineamenti fuori del normale”. La gente mi avrebbe chiesto perché la bimba aveva una faccia tanto brutta, ha detto ancora l’uomo. IlSussidiario.net ha chiesto a Padre Aldo, che da anni raccoglie nella sua clinica casi di bambini abbandonati per le loro deformazioni, un commento su questo terribile episodio: “Non si tratta di un problema religioso o non religioso” ha detto “ma è molto di più. Si tratta di capire che anche quelle vite considerate indegne di essere vissute sono relazione con l’infinito”.
Padre Aldo, di fronte a questo episodio, che cosa muove l’uomo alla compassione e alla accoglienza di fronte a qualunque condizione di vita?
Nell’esperienza che faccio da otto anni mi sono trovato a convivere con tutte le situazioni che, secondo il mondo e secondo una certa cultura, sono situazioni indegne della vita umana. Quando si pensa così è perché si parte dal presupposto che l’uomo non è relazione con l’infinito ma pura massa di carne e sangue. Guardando questi bambini nelle loro deformazioni ho capito che non si tratta di un problema religioso o non religioso, ma è molto di più.
Ci dica.
Credo che solamente dove l’esperienza di Cristo arriva e accade è possibile una commozione fino al punto di dare la vita per un altro. Penso al bimbo che ho adottato dandogli il mio nome e cognome, un bambino che per le condizioni in cui è sarebbe un classico caso di eutanasia, una vita senza senso. Per alcuni tenerlo in vita è quasi una violenza verso il bambino. Ma per me è la ragione stessa per cui Cristo si è fatto carne.
Come è possibile dire questo?
Quando mi avvicino a quel bambino con quella testa che sarà quattro volte la mia, ancor di più di quello che potrebbe apparire guardandolo così deformato, io vedo in lui vibrare l’essere.
L’essere in quanto tale, un fatto concreto che si impone, che esiste a prescindere da noi e dai nostri progetti.
Questo bambino c’è, esiste e il fatto che c’è vale più di tutto il mondo messo assieme. Io credo che anche chi non crede può commuoversi oppure scandalizzarsi, e viceversa. Quando qualcuno viene qui alla nostra clinica si domanda perché questi bambini vengano tenuti in vita in quelle condizioni, deformati peggio di Ermanno lo storpio. Si chiedono perché li teniamo in vita. Io invece stando davanti a questi bimbi percepisco con chiarezza che quel bambino è più di ciò che è la sua condizione fisica: quel bambino è relazione con l’infinito.
Cosa intende con relazione con l’infinito?
Questa relazione esiste non perché uno ne ha coscienza chiara, esiste a prescindere che tu te ne accorga o meno. Per alcuni chi non ha coscienza di sé è una merce da tirare e gettare via. Per me invece è la grazia più grande pensare che più di mille persone fra bambini e giovani possano essere state accompagnate a morire in questa nostra clinica. Quello che mi ha mosso è la coscienza chiara che l’uomo, ancor prima di incontrare Cristo o che qualcuno si occupi di lui perché in lui ha visto Cristo, è riflesso dell’eterno, è un mistero.
Mistero è una parola che la nostra società tende a escludere, mistero è ammettere che la vita non si possiede. Spesso infatti noi vorremmo eliminare tutto ciò che ci infastidisce. E’ così?
Certo. E’ meraviglioso pensare che abbiamo seppellito un bambino senza cranio e abbiamo avuto il permesso di seppellirlo nel nostro giardino dove c’è la clinica nuova. Quel bambino che ha vissuto per anni in stato vegetale e che ha commosso tutti qua dentro, dal personale medico ai visitatori, adesso è fondamento stesso della clinica. La commozione e il pianto erano presenti in tutti quando lo abbiamo seppellito. Guardando questo cadaverino che è stato il verbo dell’anima, io ho sentito realmente la presenza dell’essere.
E’ questo che permette di accogliere anche la vita di quella bimba pachistana che invece il padre non riusciva ad accettare?
E’ il fatto che una vita esiste e se esiste vuol dire che il mistero la sta facendo. Se parliamo in termini di risultati la conversione di molti di noi e non solo di noi è passata mediante la contemplazione di quel corpicino che quando era vivo aveva gli occhi che erano esplosi, respirava e basta ed è stato con noi per anni con la chiarezza che era presenza del mistero. Questo vale per il credente o meno. Quel bambino vuol dire che qualcuno che non sono io lo sta facendo. Fino al punto in cui il massimo giornalista di questo Paese, che è un ebreo non credente, dopo che ha visto queste cose filmandole per un servizio televisivo in diretta, ha detto: se quello che ho visto è Dio anche io ci posso credere.
Riconoscere che la vita è mistero, che è più grande e non definibile da noi: se uno è onesto, questo fatto cambia la sua vita.
E’ proprio questa la cosa bella che dice anche il titolo del Meeting di quest’anno. L’uomo, non importa che tipo di uomo, è comunque rapporto con l’infinito. Nella mia esperienza questo mi da allegria e certezza perché ho la consapevolezza che questi esseri vivono solo perché Dio ha un disegno su di loro.
E questo disegno qual è?
Che io mi converta, che noi corpo mistico di Cristo prendiamo coscienza di quello che siamo, cosa che altrimenti dimentichiamo. Quando è morto quel bimbo si è realizzato in pienezza quello che sempre abbiamo visto. Questo vale anche per le ragazzine madri di 11 anni che in questi mesi hanno partorito qui da noi. E’ una battaglia contro la cultura di oggi, ma il fatto che queste bambine abbiano avuto la grazia di intendere che portano nel loro corpo una presenza misteriosa che è quel bambino nato da loro, vuol dire usare la ragione. La ragione si domanda chi è che ha fatto questa persona. Questa domanda vale anche per i travestiti malati di aids che abbiamo qui. La prima cosa che dicono dopo un po’ che stanno qui è: ringrazio la malattia perché mi ha permesso di reincontrare la ragione della vita che avevo perso.
(Paolo Vites)