In pochi fino a qualche settimana fa avrebbero scommesso sulla Libia, quello scatolone di sabbia destinato, secondo i più, a scenari futuri ben poco rosei in cui ipotesi di somalizzazione si mescolavano a più “ottimistiche” previsioni di divisioni regionali. Eppure le recenti elezioni nel Paese hanno riacceso l’interesse e le speranze della comunità internazionale sul “fanalino di coda della primavera araba”, quello, per intenderci, in cui più remote sembravano le prospettive di un cammino democratico. Chi avrebbe mai puntato un solo centesimo su un Paese che non hai mai avuto uno Stato, una costituzione e neppure un barlume di pluralismo politico, un Paese in cui il vero elemento unificante, la tribù, è per sua stessa natura sinonimo di divisione?



Eppure le elezioni ci sono state e, seppure tra qualche innegabile difficoltà, gli abitanti di Tripoli, Sirte, Misurata, Bengasi e di altre cittadine divise da chilometri e chilometri di deserto hanno affrontato quelle lunghe ed entusiastiche code di chi per la prima volta si prepara a far valere un diritto che, a differenza dei cittadini degli altri Stati della primavera araba, non si era mai trovato ad esercitare, neppure in modo del tutto simbolico e tra mille brogli elettorali. 



Al di là dell’inaspettato percorso libico verso le elezioni, però, quello che sembra aver stupito i più è il risultato che da queste è emerso: la sconfitta delle forze islamiste, in particolare del partito Giustizia e Costruzione dei Fratelli musulmani e di al-Wattan guidato dal salafita Abdel Hakim Belhaj, e la vittoria della Coalizione delle Forze Nazionali dell’ex premier del Consiglio nazionale di transizione Mahmoud Jibril che con un lavoro certosino, che tanto ci dice sulla sua abilità nel destreggiarsi nel complesso puzzle libico, è sapientemente riuscito a unire più di 50 partiti e svariate organizzazioni della società civile.



Ma questo risultato può essere considerato davvero così inaspettato e soprattutto segnerà realmente un nuovo inizio democratico per la Libia? In primo luogo bisogna ricordare, ancora una volta, che la primavera araba non è uguale per tutti e la Libia costituisce una sorta di eccezione nel prisma delle rivolte arabe e proprio le sue peculiarità storiche, sociali e politiche hanno fatto sì che il suo percorso fosse per molti aspetti diverso da quello degli altri protagonisti della stagione delle rivolte.

Una delle principali specificità libiche rispetto, ad esempio, all’Egitto e alla Tunisia che hanno visto la vittoria dei partiti islamici, sta proprio nel ruolo che l’islam per decenni ha rivestito in questi Paesi. In Libia, infatti, per l’islam politico non c’è mai stato spazio, neppure quello spazio angusto riservato, suo malgrado, da Mubarak agli “scomodi” Fratelli musulmani, che però ha permesso loro di radicarsi tra la popolazione e nel dibattito politico e di presentarsi alle elezioni in maniera organizzata. Con questo non si intende certo dire che oggi l’islam non sia presente in Libia, e anzi dopo la caduta del rais è riemerso nelle sue sfumature più radicali anche a causa della debolezza della sua componente moderata, ma certamente non può sostituirsi alla tribù come collante forte e capace di convogliare la fiducia e dunque il consenso della popolazione. 

E proprio nell’elemento tribale sta l’altro fattore dell’“eccezionalismo libico”. Seppure sopito durante il quarantennio gheddafiano e seppure fiaccato nei suoi elementi più tradizionali dal vorticoso inurbamento, l’imprinting tribalistico è ancora forte in Libia e costituisce un riferimento identitario prioritario per la popolazione che, anche per i motivi già ricordati, non è stato scalfito dalle correnti confessionali e che anzi ha fatto da potente contraltare al riemergere del discorso islamico. Non è certo un caso se Jibril appartiene alla tribù più potente e numericamente importante del Paese, quella dei Warfalla, e non è certo un caso se la complessa legge elettorale libica ha affidato 120 seggi dei 200 dell’Assemblea Nazionale a candidati indipendenti e solo 80 ai partiti. È stata, probabilmente, proprio la prevalenza di indipendenti, espressione del potere tribale, a decretare la sconfitta degli islamisti e portare la coalizione alla vittoria. 

La nuova Libia dunque sembra aver intrapreso una strada diversa da quella di altri Stati della primavera araba. Questo però non deve condurre a tanto ottimistiche quanto affrettate conclusioni su una Libia che da “Stato canaglia” diventa in poco meno di un anno un esempio di laicità e liberismo, e non dobbiamo neppure credere che questo primo parziale risultato elettorale possa in un sol colpo spazzare via le milizie armate che si aggirano ancora per le città e che fino ad ora, in barba al governo provvisorio, hanno dettato legge a modo loro. Molta strada si dovrà percorrere per fermare i combattimenti che insanguinano ancora molte aree del Paese – come accaduto di recente nelle città di Sebha e Kufra -, gli arresti arbitrari, le torture, gli omicidi illegali e gli sfollamenti forzati come quelli che hanno messo in ginocchio la città, ma soprattutto la popolazione di Tawargha, e inoltre le derive secessionistiche che provengono dalla Cirenaica. Infine, c’è il rischio che proprio la forza delle tribù da principale alleato per la vittoria possa ben presto tramutarsi in una spina nel fianco per Jibril, che dovrà barcamenarsi nella fitta e variegata rete di candidati indipendenti, espressione in massima parte del potere tribale, per conferire stabilità alla sua compagine. 

Insomma, per parlare davvero di una nuova Libia il cammino da percorrere è ancora lungo e irto di ostacoli e, anche se è vero che “chi ben comincia è già a metà dell’opera”, resta ancora molto da fare per trasformare lo scatolone di sabbia libico in un vero Stato.