Una testimonianza in presa diretta da uno dei quartieri di Damasco dove infuria la battaglia. E’ quello di Lena Al-Shami, un’attivista anti-Assad che vive in una zona della capitale ancora controllata dal regime, e dove solo domenica si è verificata una strage che ha lasciato sul terreno 15 civili. Gli inizi della rivolta su Facebook, le manifestazioni messe a tacere dall’artiglieria dell’Aeronautica, i colloqui con i familiari delle vittime e il terrore di essere arrestata da un momento all’altro. E’ il racconto per Ilsussidiario.net di Lena, nome di battaglia di una giovane donna che per sostenere la rivoluzione senza essere scoperta ha scelto di lasciare il lavoro e vivere cambiando continuamente identità.
Da quando si è unita ai ribelli anti-Assad?
Io vivo a Damasco, quindi ho assistito di persona a tutto ciò che è avvenuto nella capitale siriana fin dall’inizio degli eventi. Il mio cuore era con la rivoluzione, ma inizialmente ho potuto parteciparvi solo segretamente attraverso un gruppo di Facebook. Per noi era molto pericoloso scrivere o parlare con i nostri veri nomi, quindi ci limitavamo a scambiarci e-mail con materiale informativo.
Ha partecipato anche alle prime proteste?
Ho manifestato nel centro di Damasco, una delle aree più pericolose, e siamo stati attaccati dagli shabiha (i gruppi paramilitari fedeli ad Assad, Ndr). Uno di loro mi ha colpito, ma grazie a Dio non sono stata arrestata. Ci hanno sparato con i kalashnikov e ci hanno lanciato addosso dei gas lacrimogeni. Pochi giorni dopo ho partecipato ai funerali delle vittime, che sono stati il detonatore della rivoluzione anche a Damasco e che hanno cambiato tutto.
Che cosa è avvenuto?
Anche quel giorno le forze di sicurezza ci hanno sparato, alcuni dei miei amici sono rimasti feriti ma siamo riusciti a evitare che cadessero nelle mani della polizia. Mi sono recata in diversi luoghi sotto assedio o protetti dall’Esercito Siriano Libero, dove si sono tenute manifestazioni con migliaia e migliaia di persone, che si sono concluse sotto i bombardamenti dell’Aeronautica. Ho parlato con persone che hanno perso le loro famiglie a causa del regime e mi sono incontrata con i feriti, alcuni erano diventati ciechi, altri erano rimasti storpi o gravemente mutilati. Ho visto con i miei occhi praticamente tutto ciò che era possibile vedere.
Com’è ora la situazione nella capitale e in particolare nel suo quartiere?
La situazione è molto tesa. Nel mio quartiere, Mezzeh, sono presenti ovunque gli shabiha. Dall’inizio della rivoluzione girano armati e abbiamo paura che possano piombare da un momento all’altro in mezzo ai civili e commettere altri massacri, come quelli avvenuti di recente in altri luoghi della Siria. Qui a Mezzeh ne è stato perpetrato uno domenica, circa 15 persone sono state uccise per mano delle forze di sicurezza. Alcune avevano la testa tagliata, ad altre avevano sparato in mezzo agli occhi, nel naso, nelle mani, altre ancora avevano braccia e gambe spezzate, erano saliti con le auto sui loro corpi. Dalla casa in cui mi trovo posso vedere aerei militari, mitragliatrici, soldati dell’esercito. A due giorni dal raid il quartiere è calmo ma impaurito per quello che potrebbe accadere in futuro.
Quanto sono lontani i combattimenti dal punto in cui si trova?
Circa 15 minuti a piedi. Due giorni fa erano ancora più vicini, gli aerei volavano rasenti alle case sparando con i cannoni contro la gente del quartiere. La situazione cambia di ora in ora, in alcuni momenti ci troviamo nel cuore della battaglia e in altri ad alcuni minuti di distanza dagli scontri.
I ribelli controllano alcuni quartieri di Damasco?
L’Esercito Siriano Libero non controlla nessuno dei quartieri, e non prevediamo che ciò accada. La tattica dei ribelli è diversa, prima colpiscono e poi abbandonano l’area, perché temono le vendette del regime contro i civili. Quando l’Esercito Siriano Libero si insedia in una zona abitata, le forze di Assad arrivano e radono al suolo tutte le case. Per questo le armate rivoluzionarie sono sparse in tutta Damasco senza occupare determinate zone.
Come fa a proteggere la sua incolumità in questa situazione?
Ho abbandonato la mia casa per tre mesi, poi vi sono tornata ma vivo in altri luoghi per lungi periodi. Quando mi connetto a Internet utilizzo un programma per la protezione informatica, e soprattutto ho smesso di recarmi al lavoro, perché avevo paura che gli shabiha, la polizia o i servizi segreti venissero ad arrestarmi. Tutti gli attivisti come me utilizzano differenti nomi, linee telefoniche, automobili e abitazioni. Chi lavora sul campo deve cambiare tutto per evitare di essere scoperto.
(Pietro Vernizzi)