Nonostante i reiterati fallimenti della comunità internazionale non soltanto nel fermare – ma anche solo nel tamponare temporaneamente – il massacro che la guerra civile siriana sta producendo da oltre quindici mesi, la via diplomatica sembra ancora l’unico frangente in cui le azioni degli attori globali possano declinarsi.
È questo lo spirito con cui è stata convocata il 30 giugno la Conferenza di Ginevra del “Gruppo d’Azione” per la Siria (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, i ministri di Iraq, Qatar, Kuwait e Turchia, i segretari generali di Onu e Lega Araba e l’Alto rappresentante per la politica estera europeo). Mancava l’Iran, che pure in un primo momento sembrava potesse sedere al tavolo svizzero ed essere coinvolto nel processo di pace. Alla fine, però, si è deciso di tenerlo fuori.
In apertura della conferenza Kofi Annan, attualmente delegato per la Siria e la Lega Araba, ha detto perentorio che “un fallimento dell’accordo di quel giorno sarebbe stato giudicato duramente dalla Storia”. E alla fine, però, l’accordo c’è stato: un governo di transizione, riforme costituzionali ed elezioni libere. Nell’auspicato governo transitorio saranno coinvolti membri del regime attuale e tra le precondizioni non compare la richiesta di dimissioni a Bashar al-Assad. È questo l’ultimatum che il Gruppo d’azione ha mandato alle due parti del conflitto civile.
Niente colpi di scena, dunque, per quanto le aspettative su questo summit fossero elevatissime. Anzi, a ben guardare, l’opzione di un governo transitorio che includesse personalità del vecchio regime e dell’opposizione era già uno dei punti cardine del piano di Kofi Annan. E quando quel piano era stato sottoscritto (a marzo di quest’anno) tutte le parti internazionali, incluse Russia e Cina, si erano trovate d’accordo. Per di più, l’intangibilità del raìs damasceno era stata già allora, un gran successo diplomatico per Mosca, principale alleata di Damasco.
L’accordo c’è, dunque, ma è anche evidente come la sua condicio sine qua sia l’ancoraggio inevitabile ai minimi termini della progettualità d’azione. Una formula che, come abbiamo detto, è stata già sperimentata nei mesi precedenti e che ha già dimostrato di non funzionare. Prima di tutto perché il dialogo politico presuppone necessariamente il rispetto del cessate il fuoco. Quest’ultimo, già entrato in vigore il 12 aprile scorso, non è mai stato rispettato da nessuna delle due parti (che pure l’avevano accettata formalmente). E le circostanze, finora, non fanno certo sperare in un cambiamento di strategia. Il livello delle violenze nell’ultimo mese è – anzi – aumentato vertiginosamente assieme al numero di vittime giornaliere. Mentre la missione di osservatori dell’Onu, che avrebbe dovuto vegliare su quella tregua, ha finito per essere sospesa dopo i numerosi attentati subiti (da mani non sempre ben identificate) e dopo aver ammesso l’incapacità sostanziale di fermare i massacri d’intere città, che in questi ultimi mesi si sono moltiplicati.
Singolare è poi il fatto che mentre gli attori internazionali – firmatari del Piano Annan, membri degli “Amici della Siria” o del “Gruppo d’azione” – continuano a sostenere che il dialogo politico sia l’unica via per risolvere la crisi interna,
Alcuni di essi (per esempio la Russia) continuano a fornire armi al regime, mentre altri armano l’opposizione. Il Qatar e l’Arabia Saudita in primis. E, inoltre, pochi giorni fa, l’eminente quotidiano statunitense, il New York Times, dava conto di agenti della Cia alla frontiera turco-siriana in procinto di consegnare armi a “scelti e fidati” combattenti della resistenza.
A dimostrazione del fatto che non solo il conflitto interno non è oggettivamente più solo un “affare dei siriani”; ma anche a rendere più esplicita quella schizofrenica ambiguità che c’è nell’incentivare il dialogo politico tra due parti e nel frattempo militarizzare l’area del conflitto. Per non parlare delle sanzioni pesantissime che, sebbene volte a colpire i businessmen vicini ad Assad, hanno ormai distrutto l’economia siriana: un calo del 6,5% del Pil previsto per il 2012, svalutazione vertiginosa della moneta, inflazione alle stelle e disoccupazione che dilaga.
Intanto nelle ultime settimane la situazione umanitaria sul terreno è precipitata vertiginosamente con il regime che rade al suolo le città sunnite dove si annidano i terroristi e i combattenti della resistenza che ammazzano famiglie alauite (solo perché lealiste), dissacrano le chiese dei cristiani (tendenzialmente rimasti fedeli al regime di Assad) e compiono attentati terroristici, come gli ultimi due che a Damasco hanno fatto esplodere prima la sede di una televisione e poi il Palazzo di Giustizia.
È in questo quadro che la comunità internazionale vorrebbe incentivare la costituzione di un governo di transizione, che avvii subito riforme condivise e in cui − uno di fianco all’altro − siedano esponenti del vecchio regime e membri di dell’opposizione. Tutti, magari, presieduti dallo stesso Assad. Come se poi, dopo aver delegittimato al livello internazionale un leader politico, possa essere facile riammetterlo nei circuiti della diplomazia. Bashar, dal canto suo, ha già esplicitamente detto che “non accetterà soluzioni imposte dall’esterno” e non mostra nessuna intenzione di voler cedere il potere.
L’impasse della comunità internazionale è in realtà legata al fatto che il conflitto siriano ha raggiunto ormai una tale portata internazionale da rendere qualsiasi mossa unilaterale pericolosamente in grado di ripercuotersi sull’equilibrio di potenza tra gli attori globali. La Russia, in questo momento, sta mostrando una incredibile forza di leverage sull’Occidente, mentre Washington non intende stressare le relazioni con Mosca più di quanto già non lo siano (sul tavolo ci sono questioni assai sensibili, dallo scudo missilistico al nucleare iraniano).
È indicativo che neppure la reazione di Ankara all’abbattimento del Phantom F-4 turco da parte dell’aeronautica siriana (22 giugno), abbia prodotto un casus belli tale da sciogliere le riserve della Nato sull’opportunità di intervenire militarmente in Siria. D’altra parte, l’incidente del velivolo turco (intenzionale o involontario, a seconda che si legga la versione di Ankara o di Damasco) sarebbe stato comunque un pretesto assai meno fulgido rispetto agli oltre 13.000 morti (ufficiali) che la guerra civile ha già provocato. Questi, cioè, sarebbero stati di per sé sufficienti ad invocare quel famoso principio della “responsabilità di proteggere” che ha coronato la maggior parte delle missioni Nato dalla fine della Guerra Fredda (ultima quella in Libia).
L’Occidente ha, dunque, scelto armi “soft”, per dir così: il sostegno alla resistenza e alla creazione di una forza politica di opposizione (il Consiglio Nazionale Siriano, prima guidato da Burhan Ghalioun e poi da Abdel Basset Saida). Quest’ultima, tuttavia, creata all’esterno della Siria, senza alcuna aderenza con gli eventi interni e la sofferenza della popolazione siriana, oltre ad essere già erosa da giochi di potere, ha esplicitamente affermato di non voler accettare alcuna forma di dialogo con Bashar al-Assad.
Le sanzioni economiche contro il regime – infine – ricordano tanto l’embargo che negli anni 90 colpì l’Iraq di Saddam Hussein, con il risultato che a soffrire e ad impoverirsi fu prima di tutto la popolazione civile.
L’accordo di Ginevra, dunque, alla fine c’è stato, con buona pace di coloro che l’hanno sottoscritto. È tuttavia lecito domandarsi quanto le decisioni prese potranno avere un effetto risolutivo sulla guerra civile siriana. Prima di tutto sulla crisi umanitaria che di giorno in giorno diventa più grave. E questo di sicuro, prima o poi, la Storia lo giudicherà.