Le recenti violenze perpetrate ai danni dei cristiani a Garissa, in particolare contro la cattedrale cattolica e la African Inland Independent Church del Kenya, che hanno provocato la morte di decine di persone, sono un segnale allarmante per il futuro dell’Africa e per i progressi riguardanti la libertà di religione nel mondo. E’ allarmante il propagarsi del metodo “Boko Haram”, il gruppo fondamentalista che da anni sta attaccando la comunità cristiana nigeriana.
In molti paesi africani, la violenza di matrice religiosa viene utilizzata per perseguire obiettivi politici. Dietro la morte di migliaia di cristiani negli ultimi anni c’è una grande confusione istituzionale ad ogni livello, che lascia spazio a conflitti di ogni genere e sanguinose lotte fratricide. Ogni ambito è una piccola guerra civile: Stati, tribù, economia, religione.
In Kenya esistono almeno trenta gruppi criminali che si sono sviluppati negli ultimi anni e le milizie stesse sono il risultato di un modo di governare che ha portato ad un’enorme disparità economica e ad una pessima redistribuzione delle ingenti risorse e servizi nazionali, mettendo ai margini diverse comunità. I partiti politici e i gruppi etnici, in Kenya, coincidono sempre. Siamo quindi in un contesto dove l’islam radicale, quello che fa del cosiddetto jihadismo la propria ragione di vita, trova vita molto facile: senza istituzioni, tra la guerra e una povertà inimmaginabile, la gente non sa dove guardare e questi gruppi hanno una capacità di reclutamento che cresce e si espande sempre di più. Rapimenti di cooperanti, traffico di armi e violenza caratterizzano da molto tempo il confine somalo-keniano, uno dei più instabili e problematici di tutto il Corno d’Africa. I soldati kenioti partono proprio da Garissa per andare a stanare i miliziani islamici, i quali come rappresaglia, distruggono chiese e uccidono i cristiani. E’ purtroppo una storia che i cristiani stanno vivendo in tutto il mondo.
Da troppo tempo ormai sono uno strumento di vendetta e di lotta per il potere e contro il potere. La situazione al confine, con i continui scontri armati che di fatto rendono l’area militarizzata, ha praticamente annullato la capacità delle agenzie umanitarie di operare in queste zone. Il controllo del gruppo islamico Shabaab su gran parte dei territori della Somalia meridionale ha impedito a diverse agenzie dell’Onu – come ad esempio il World food programme (Wfp) – di intraprendere attività di distribuzione degli aiuti, causando il congelamento di quell’economia informale sorta negli anni all’interno dei principali centri a ridosso del confine somalo-keniano.
L’intervento militare contro i miliziani islamici iniziato lo scorso ottobre nel sud della Somalia da parte delle truppe keniote non ha sortito alcun risultato concreto, anzi, ha contribuito a fomentare la violenza e l’odio contro il governo di Nairobi e, come abbiamo visto, contro le minoranze cristiane. Gli estremisti sanno bene di non dover temere l’esercito, e allo stesso tempo l’esercito stesso e il Governo kenyota sanno benissimo che da soli non hanno speranza di debellare il nemico. La coesistenza sembra essere un vero miraggio. L’intervento della comunità internazionale, anche militare, è sempre più urgente.
Solo un intervento esterno potrà garantire le condizioni di vivibilità e il rispetto dei diritti umani, primo fra tutti la libertà religiosa. Come ho già fatto per la Nigeria, anche per la situazione al confine tra Somali e Kenya mi farò nei prossimi giorni promotore di un appello ‘ai governi europei perché si coordinino con urgenza facendo pressioni sulla comunità internazionale per favorire l’invio di un contingente delle Nazioni Unite.