Caro direttore,
tra gli editoriali pubblicati sul “Corriere della Sera” il giorno di Ferragosto spicca il commento del filosofo Bernard-Henri Levy alla situazione siriana, il cui titolo è: “Aleppo come Bengasi, l’Occidente intervenga”. L’intellettuale francese, muovendo a partire dall’osservazione della brutale repressione attuata dal regime di Bashar al-Assad, descrive attraverso una serie di domande/risposte i motivi per cui l’Occidente dovrebbe intervenire, e perché egli ritiene doveroso farlo.
È un dato indiscutibile che tutto il mondo (o quasi…) non può che concordare sulla necessità di porre fine, nel più breve tempo possibile, ad un massacro che conta ad oggi circa 20mila morti. Ma qualcosa non torna tra le righe di Levy, nel modo in cui giustifica e descrive un eventuale intervento armato in Siria.
Nel suo editoriale Levy afferma che è necessario intervenire, sospinti da quel principio della responsibility to protect che ha già portato all’intervento in terra libica: il dovere di proteggere i civili siriani è l’obbligo supremo in capo al mondo occidentale. Questa è, secondo Levy, la giusta causa, ciò che renderebbe pienamente legittimo, entro i crismi di una nuova dottrina della guerra giusta, l’intervento esterno sul suolo siriano. Il filosofo francese si spinge oltre, fino a definire i termini strategico-militari dell’operazione: niente uomini sul campo, niente soldati a terra, solo l’istituzione di no fly zone, no drive zone e via dicendo. Ma come porre in essere simili misure? Se non ci sono truppe sul campo può essere solamente (e Levy lo dichiara apertamente) attraverso bombardamenti dal cielo e dal mare. Ma è proprio qui che, mi sembra, la sua argomentazione faccia acqua. Come affermato da Michael Walzer nel suo “Just and Unjust Wars. A moral argument with historical illustration” una guerra per poter essere definita giusta (io userei il termine necessaria) non deve semplicemente fregiarsi della giusta causa, ma deve rispettare nella sua conduzione tutti i principi dello ius in bello: una guerra cominciata per una buona ragione, ma combattuta attraverso bombardamenti a tappeto, uccisioni (anche involontarie) di civili e violazioni dei diritti umani non può certo essere “etichettata” come giusta! Il caso libico dovrebbe insegnare: non è possibile proteggere i civili bombardando da lontano. È possibile effettuare un regime change, questo sì, e viene quasi il dubbio che, attraverso queste modalità di intervento, ciò che si augura il filosofo francese sia in realtà proprio un cambio di regime.



Fa certo strano che uno che tra le sue righe denuncia nel dibattito sulla situazione siriana la presenza di una “malafede senza limiti”, lasci aperta la porta per un utilizzo della responsibility to protect strumentale ad un cambio di regime, certamente utile a indebolire e isolare ulteriormente l’Iran degli ayatollah. Se, come dovrebbe essere, si vogliono proteggere i civili, donne e bambini che vengono massacrati nelle strade di Aleppo, bisognerebbe essere pronti ad assumersi i rischi che la solennità dell’impegno comporta, attraverso un intervento a terra con delle truppe di interposizione tra le milizie ribelli e l’esercito di Assad, così da porre fine alle violenze (il tutto sotto l’egida Onu, non solamente tramite volenterosi francesi).
Certo, sarebbe una scelta molto costosa in termini sia di vite umane (tra gli intervenienti), sia politici, sia economici, ma eviterebbe le uccisioni di civili causate dai bombardamenti aerei. Che nessuno, Francia compresa, sia disponibile ad assumersi questi rischi solamente per difendere dei civili, è un altro discorso.



(Claudio Fontana)

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