Epilogo della manifestazione furibonda che si è scatenata a Bengasi, in Liba, per protestare contro un film ritenuto blasfemo su Maometto, è stata la morte dell’ambasciatore americano e di tre funzionari dell’ambasciata. Chris Stevens ha così perso la vita, morendo asfissiato per il fuoco che si è propagato nell’edificio delle rappresentanza diplomatica in seguito, pare, al lancio di alcuni razzi. Sono ancora da chiarire, in ogni caso, la circostanze in cui si è sviluppata la vicenda. Sembra che la protesta non sia stata il vero motivo, non l’unico, almeno, per colpire l’ambasciata. Non a caso, dai siti di Al Qaeda si è levata la rivendicazione dell’assalto. Si tratterebbe di una reazione della milizia Ansar Al-Sharia alla conferma della morte di Abu al-Libi, numero due della rete terroristica. Gabriele Iacovino, responsabile Cesi (Centro Studi Internazionali) del desk Nord Africa e Medio Oriente, ci spiega come stanno le cose.



Secondo lei, qual è stata la dinamica esatta dell’attentato?

Non parlerei, anzitutto, di un attentato, quanto di un attacco vero e proprio ad  un edificio di rappresentanza americana. Ci sono state delle manifestazioni popolari, certo, ma su di esse si è innestata una vera e propria azione militare preorganizzata.



Da parte di chi?

Da una di quelle milizie che hanno fatto parte della resistenza contro Gheddafi, che hanno deciso di non lasciare le armi e che l’attuale governo libico non è in grado di controllare, così come non è in grado di controllare tutto il territorio. Non so fino a che punto la rivendicazione di Ansar Al-Sharia, seppur verosimile, sia da ritenersi attendibile. Quel che è certo, invece, è che fin dalle prime immagine di questa mattina, si sono scorte, nel corso della manifestazioni contro l’ambasciata di Bengasi, dei vessilli qaedisti. Chiunque sia stato, quindi, ha legame con l’estremismo salafita e qaedista. Anche laddove, ipotesi del tutto possibile, si tratti di una milizia di stampo tribale. Per costoro, gli obiettivi variano dall’instaurazione di un regime islamico alla semplice affermazione del proprio potere personale.



Alla luce degli episodi di oggi, in che condizioni versa il processo di democratizzazione del Paese?

Le elezioni libere, di sicuro, sono state un passaggio fondamentale. Tuttavia, vi è, ad oggi, un deficit di capacità di controllo da parte delle istituzioni. Non dimentichiamo che il regime di Gheddafi ha tenuto sotto scacco il Paese per quasi 50 anni e che c’è una rete di sicurezza da ricostruire completamente. Ma la cosa peggiore in assoluto è che tra le vari realtà libiche non è stato ancora trovato un accordo, non c’è un obiettivo comune.

Nelle varie componenti, quanto pesano quelle connotate dall’estremismo?

Con loro il compromesso è difficilmente raggiungibile; tuttavia, dal punto di vista istituzionale, sono del tutto minoritarie. Occorre, inoltre, distinguere tra le componenti estremiste e quelle legate alle realtà tribali benché, con le prime, siano spesso in rapporto.

Come vanno interpretati, invece, i disordini per protestare contro il film su Maometto?

Rispetto a quando c’era Gheddafi, c’è maggior spazio per la rivendicazione di certe istanze religiose e sociali e, ovviamente, per la loro strumentalizzazione. 
Come crede che reagirà l’America?

Non credo che abbia altre opzioni se non quella di condannare l’accaduto e chiedere all’autorità libica maggiori garanzie per la sicurezza del Paese.

L’episodio rischia di inficiare la campagna elettorale di Obama?

Di sicuro, si tratta di un duro colpo alla sua immagine. D’altro canto, il tallone d’Achille del suo avversario è proprio la politica estera. Per Obama, quindi, tutto sommato è stata una fortuna che la débacle sia avvenuta su questo piano e non su quello della politica interna dove la lotta è molto più serrata.

I rapporti con l’Italia cambieranno?

Diciamo che, in ragione della debolezza delle istituzioni libiche, investire oggi nel Paese è un rischio enorme. Sta di fatto che, a livello di governo, abbiamo il dovere di aiutare la Libia per consentire il loro consolidamento.

 

(Paolo Nessi)

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