J. Christopher Stevens, l’ambasciatore americano ucciso ieri a Bengasi, non era un diplomatico qualsiasi. Non solo e non tanto perché era un ex-volontario del Peace Corps che parlava un arabo che in gioventù aveva affinato vivendo per due anni sulle montagne del Marocco; non solo e non tanto perché era uno specialista che aveva lavorato per buona parte della sua carriera nel Vicino e nel Medio Oriente, ma soprattutto perché era il rappresentante diplomatico straordinario di Washington che nell’aprile dell’anno scorso era giunto a Bengasi a bordo di un mercantile greco per prendere contatto con i capi della rivolta contro Gheddafi. E poi, nella sua veste di ambasciatore presso il governo provvisorio istituito dagli insorti, aveva provveduto al loro rifornimento di armi e munizioni. In seguito, dopo la sconfitta e l’uccisione di Gheddafi, da Bengasi si era trasferito a Tripoli dove aveva riaperto l’ambasciata degli Stati Uniti. A Bengasi, che riteneva di conoscere ormai bene, evidentemente si sentiva sicuro al punto che, a quanto pare, vi si trovava senza scorta. Ciò è davvero sorprendente se si considera che gli ambasciatori e i consoli americani vivono sotto scorta anche in Paesi ben meno problematici, Italia compresa.
Il casus belli all’origine dell’assalto alla sede del consolato Usa di Bengasi – dove egli si trovava insieme agli altri tre americani che hanno perso la vita insieme a lui – era la notizia della realizzazione negli Stati Uniti di un film su Maometto, sembra prodotto da cristiani copti americani di origine egiziana. Agli occhi della massima parte dei musulmani un fatto del genere sarebbe oltraggioso in sé. Secondo un “detto” molto autorevole, il Profeta non può essere comunque oggetto di rappresentazioni teatrali e quindi anche cinematografiche. E ciò a prescindere da come lo si rappresenta: potrebbe essere una rappresentazione rispettosissima, ma in quanto tale è in ogni caso ritenuta un sacrilegio.
Sembra pertanto strano che dei copti, anche se americani, non sapessero quale eco avrebbe avuto nel mondo musulmano una tale iniziativa. Ad ogni modo la notizia nel mondo arabo è stata presa per buona, e manifestazioni di protesta culminate in assedi a sedi diplomatiche americane si sono verificate anche altrove, tra l’altro in Egitto. Per di più ricorreva l’anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle di New York. E si sa che nel mondo arabo gli anniversari di eventi del genere suscitano in molti l’oscuro desiderio di replicarli, se non appieno, in ogni caso nella misura del possibile. Non solo: il modo con cui, davanti a una platea televisiva mondiale, a New York si continua a commemorare l’anniversario dell’11 settembre è molto controproducente e perciò meritevole di venire radicalmente ripensato. Agli occhi dei musulmani appare infatti come una manifestazione di smarrimento e di debolezza, che non contribuisce per nulla a smuovere le coscienze degli attuali o potenziali terroristi ma anzi li incoraggia nella loro follia sanguinaria.
Tutto ciò premesso, le cause immediate dell’assalto al consolato americano di Bengasi sono evidenti, ma non bastano tuttavia a spiegare l’uccisione dell’ambasciatore Stevens e di tutti coloro che erano con lui. Il cruento episodio è la conferma che pur di far cadere Gheddafi in Libia si è aperto un vaso di Pandora che non sarà affatto facile rinchiudere. Tutte le volte che in casi del genere si distribuiscono armi a chiunque si proclami nemico del nostro nemico si mettono in moto delle dinamiche che poi sempre sfuggono di mano. Lo si vide in Afghanistan, lo si vede in Libia. Vogliamo tra poco vederlo anche in Siria?