L’elezione di Hassan Sheikh Mahamud in Somalia la settimana scorsa rappresenta una svolta epocale nella lunghissima e sanguinosa transizione somala. La road Map tracciata dalle varie conferenze internazionali (quelle di Istanbul e Londra soprattutto) ha segnato un punto fondamentale nella marcia verso l’auspicata normalizzazione della Somalia e di tutta l’area del Corno d’Africa. Una vittoria della società somala, prima di tutto, e delle forze di cambiamento e di rinnovamento che non sono mai riusciti, nel corso degli ultimi decenni, ad avere il sopravvento sui “signori della guerra” e sugli integralisti di ogni risma che hanno trovato nel ventre molle del Golfo di Aden un terreno fertile. Il nuovo presidente, eletto con 190 voti, ha sconfitto il suo rivale e presidente in carica Sheikh Ahmed. Ma la sconfitta più significativa è quella inflitta ai “mandarini” di Mogadiscio, quei famigerati “ war lords” (signori della guerra) corrotti e dediti ai mille traffici illeciti che vanno dalla compravendita delle armi, al traffico della droga, al controllo e commercializzazione degli aiuti internazionali fino ai rapimenti di equipaggi di navi privati occidentali a fini di estorsione. I “mandarini” di Mogadiscio hanno sempre condizionato e fatto naufragare ogni tentativo di normalizzazione del paese preferendo piccoli compromessi destinati a lasciare in vigore lo status quo degli affari loschi e dell’anarchia. L’altra sconfitta di questa elezione è quella subita dalle milizie Al Shabaab, espulsi da Mogadiscio ma ancora molto presenti nella gran parte delle aree rurali della Somalia. Queste milizie sono, forse, la sfida più insidiosa del nuovo potere. A causa non solo del controllo militare di larga parte del territorio, ma per via della loro determinazione a non considerare la partita chiusa potendo contare sulle ramificazioni, le complicità e le forniture in armi e denaro proveniente dalla galassia globale jihadista. Non a casa all’indomani dell’elezione del nuovo presidente, le milizie Al Shabaab hanno fatto sentire in maniera violentissima con l’attentato all’Hotel Jazeera Palace dove il nuovo uomo forte stava incontrando il ministro degli Esteri del Kenya Sam Ongeri. Un messaggio inquietante da non sottovalutare. Perché tentare di uccidere un presidente appena eletto ha voluto dire soffocare sul nascere qualunque barlume di speranza a Mogadiscio. Quello dell’hotel Jazeera è una bomba contro la stabilità possibile.
Il nuovo presidente ha ribadito la sua determinazione a portare avanti il ritorno della Somalia nella normalità. Un’aspirazione condivisa da tutti i somali dell’interno e della diaspora. Uomo della società civile, appartenente al partito “Harakat al – islah”, partito islamico della “Fratellanza musulmano”, Hassan Sheikh Mohamud ha sempre privilegiato il lavoro sociale, l’impegno nella formazione universitaria e la gestione dei numerosi progetti umanitari in stretta collaborazione con gli organismi internazionali. Le prossime mosse politiche sono attese in Somalia e nella comunità internazionale per misurare la capacità di questo personaggio di essere all’altezza delle speranze che la sua elezione ha suscitato. Fondamentale a questo riguardo la scadenza di fine mese quando tutti gli attori nazionali e internazionali si riuniranno in una nuovo conferenza per esaminare i punti ancora non applicati della road map e altri nodi cruciali che riguardano la formazione di un nuovo governo; lo sforzo per allargare il controllo dello stato nel resto del territorio somalo ancora in mano alle milizie; il rilancio dell’attività e economica e delle infrastrutture di base nella capitale e altrove; il ripristino dell’amministrazione in tutte le sue articolazione e la costituzione di un esercito nazionale che, piano piano, sia in grado di sostituirsi al controllo selvagge del territorio da parte delle milizie personali. Vaste programme! Verrebbe da dire per un paese diventato nei decenni l’emblema dei “failing state” diventato un porto franco per tutti i terroristi e tutti i traffici. Bisogna ripristinare urgentemente l’autorità dello stato e superare gli aspetti più deleteri dell’economia di guerra che ha caratterizzato la Somalia dalla caduta di Siad Barre nel 1992.
La Somalia e i somali hanno fatto molto con questa elezione. Molto resta da fare per consolidare questo fragile successo. E qui che scatta la sfera delle responsabilità della comunità internazionale. Per sostenere lo sforzo dei somali e operare un rafforzamento delle istituzioni che si stanno insediando a Mogadiscio. Per accompagnare con un robusto progetto di assistenza militare, di cooperazione economica, di normalizzazione delle infrastrutture materiali, sociali e culturali in deliquescenza da troppi anni. Lo dobbiamo fare non solo nei confronti delle popolazioni somale che anelano alla pace e alla democrazia. Ma deve essere chiaro a tutti che la pace e la stabilità in Somalia è la chiave per la stabilità regionale e mondiale. Sarebbe sbagliato continuare a pensare a questo paese solo come a una minaccia per la libertà di navigazione e di commercio nel mar rosso. La pirateria – fenomeno complesso e drammatico – è solo l’epifenomeno di una minaccia globale e strutturale rappresentata dall’anarchia politica ed istituzionale della Somalia. In quest’area sono in gioco interessi geostrategici vitali per l’Occidente e i suoi partner. Non solo per garantire la sicurezza dell’approvvigionamento energetico, ma tocca anche la lotta globale con il fondamentalismo jihadista che ha trovato nel Corno d’Africa un santuario libero dove scorrazzare e preparare la penetrazione nel resto del continente. Inoltre, la Somalia è un punto insostituibile da stabilizzare per essere certi che tutta l’area del Corno d’Africa possa stabilizzarsi. Il momento è propizio con la transizione in corso in Etiopia a causa della scomparsa del presidente Meles Zenawi e quelli attesi in Eritrea per il dopo Afeworki, attuale leader eritreo.
L’Italia non può restare spettatrice di ciò che sta avvenendo in quell’area. Per le ragioni storiche di presenza nel Corno d’Africa e in Somalia segnatamente. Esistono dei legami culturali ed umani (la presenza di una numerosa e qualificata diaspora somala in Italia) che militano per un coinvolgimento non episodico della nostra diplomazia nell’area. Occorre un’iniziativa puntuale, energica, mirata e concordata con i protagonisti somali per dare corpo e continuità alla speranza suscitata dall’elezione del nuovo presidente. Altrimenti rischiamo di assistere all’eterno ritorno dei vecchi demoni che hanno operato per fare della Somalia il mare delle turbolenze e la terra della disperazione.