Si è conclusa ieri la visita di Benedetto XVI in Libano, dove il Papa, al termine di una messa celebrata dinanzi a 500mila persone, ha consegnato ai vescovi l’Esortazione apostolica post-sinodale per il Medio oriente. Benedetto XVI ha invitato musulmani e cristiani al dialogo e alla pace, “perché tutti possano vivere pacificamente e con dignità”. Quella dignità alla quale la natura umana non può rinunciare.
Per questo, la visita del Pontefice in Libano si può considerare la vera risposta alle violenze che hanno segnato il Medio oriente in questi giorni, scatenate dalla pellicola sul profeta Maometto giudicata blasfema. Su questi temi e sulla visita di Benedetto XVI, IlSussidiario.net ha parlato con Ibrahim Shamseddine, intellettuale libanese, docente di scienze politiche nell’American University di Beirut, già ministro del governo Hariri e fondatore dell’Imam Shamseddine Foundation for Dialogue di Beirut.



Mentre Benedetto XVI si accingeva a visitare il Libano, in moltre piazze del nord Africa e del Medio oriente si è scatenata la violenza. Secondo lei che cosa è realmente accaduto nei giorni scorsi?

Il cosiddetto “film” sul profeta Maometto è stato la causa dichiarata della violenza cui abbiamo assistito in questi giorni. Ma quel “film” è stato una trappola e sfortunatamente molti vi sono caduti. Ci sono ancora persone che preferiscono il caos alla stabilità, che non amano il cambiamento e che hanno usato l’incidente del film per attaccare edifici pubblici, obiettivi e personale diplomatico. Forse, il rilascio di quel film aveva esattamente lo scopo di rovinare la visita del Papa in Libano e portare caos nella regione in generale.



In occidente si è parlato di fine della primavera araba. È così?

Mi lasci dire innanzitutto che questi atti di violenza sono esecrabili e non sono in alcun modo espressione di una difesa dell’islam o del profeta. Nei fatti quesi atti violenti, offensivi e illegali hanno danneggiato la reputazione dei musulmani. Non dimentichiamo che la religione è stata sempre usata come copertura strumentale di molte offese da parte di laici e di personalità politiche. No, non è la fine della primavera araba. Queste società sono in trasformazione, e ogni trasformazione richiede tempo, passaggi anche turbolenti, e uno sforzo continuo e onesto per raggiungere una conclusione. Ricordiamo la rivoluzione francese?



Che cosa ha rappresentato la visita del Papa in Libano?

La visita del Papa è stata importante per tutti libanesi, compresi i musulmani. È un ammonimento a tutta la comunità internazionale a non dimenticarsi del Libano. Ha mostrato inoltre la continua sollecitudine del Vaticano per questo Paese, così che questa visita è, nei fatti, una continuazione di quella di Giovanni Paolo II del 1997. Il suo significato, a mio avviso, è quello di ricordare ai cristiani libanesi e arabi che essi appartengono ai loro Paesi, e che non sono e non dovrebbero essere considerati parte dell’occidente.

Perché secondo lei il Libano è in cima alle preoccupazioni del Papa? 

L’importanza del Libano è quella di essere il paese dove i cristiani hanno la presenza più dinamica del mondo arabo. Il Libano è una democrazia con molti problemi, è vero, ma è una democrazia. Questo paese è segnato dal “vivere insieme” − come ha detto anche il Papa − di musulmani e cristiani; essi costituiscono una unica società politica, a dispetto di tutte le difficoltà. La convivenza tra musulmani e cristiani è sancita nella Costituzione, non è un affare tra i capi delle confessioni; è realmente ciò che il popolo vuole e la vita che la gente vuole vivere. Quindi non è una concessione data da qualche partito ai cristiani, che come tale potrebbe essere ritirata. È un diritto e come tale deve essere difeso.

Esiste un “modello libanese”?

Il modello libanese è la testimonianza viva che una vita comune è possibile tra popoli di religione differente. Direi anche che la nostra “formula”, la formula libanese, ha bisogno di essere protetta dagli stessi libanesi. Allo stesso tempo essi dovrebbero continuamente “ritrovarla”, rivitalizzandola. La visita del Papa in Libano è un contributo in questa direzione.

Anche ieri Benedetto XVI ha invocato la pace, come testimonianza degli uomini di fede e come bene auspicabile per la Siria e per l’intero medio oriente. La pace è un obiettivo realistico?

Vivere in pace dovrebbe essere il primo modo di vivere. Dopotutto è questo il messaggio che tutti i profeti hanno portato e insegnato all’uomo. Nessuna vera religione di origine divina ha predicato la guerra come modo di vita. La guerra e la violenza come modo di vivere non sono mai state nell’insegnamento del vero giudaismo, del vero cristianesimo e del vero islam. La violenza è il prodotto degli uomini, non della religione.

Per buona parte dell’opinione pubblica occidentale, islam è sinonimo di violenza. Che ne pensa?

Islam non significa violenza. Naturalmente ci sono musulmani violenti, così come ci sono cristiani, ebrei e atei violenti. Il problema è che la religione in generale continua a venir giudicata dagli atti di alcuni dei suoi fedeli invece che dagli insegnamenti. Si può dimostrare come l’islam dissuada dall’uso della violenza e la limiti ampiamente. Ne regola l’uso in specifici casi, imponendola in circostanze come l’autodifesa, la difesa della patria e della dignità della persona umana, ma allo stesso tempo mette precise restrizioni al suo uso anche in casi legittimi. Ci sono molti versi del Corano e molti insegnamenti del profeta dove questi temi sono affrontati in modo chiaro.

Quindi lei condanna i musulmani che fanno ricorso la violenza.

Sì. L’uso della violenza da parte di musulmani non la rende giustificabile dall’islam. Essi sono o ignoranti o usano volutamente slogan islamici oppure ancora incitano alla violenza per brame politiche. Osama bin Laden era musulmano, è nato da genitori musulmani e ha sempre dichiarato di essere musulmano. Nessuno può rifiutargli l’islam, ma è un suo vero profeta, il suo legittimo e accettato portavoce? No, egli è stato musulmano quanto Hitler o Mussolini sono stati cristiani.

Cosa pensa del rapporto tra cristianesimo e islam?

Islam e cristianesimo condividono molti concetti e convinzioni; io a volte sorrido quando leggo certe cose nella Bibbia, perché mi sento come se leggessi un testo islamico. La differenza sta in alcuni concetti della fede come la natura di Cristo, la trinità di Dio, e altro ancora. Però l’islam è l’islam, il cristianesimo è il cristianesimo e lo saranno fino al giorno in cui dio chiama tutti noi alla sua presenza e al suo giudizio.

E dal punto di vista dell’incontro tra persone di fedi diverse? Quali sono o dovrebbero essere le vere radici del dialogo tra cristianesimo e islam?

Il dialogo si basa su un fondamento semplice ma solido, quello in base al quale ciascuno di noi deve accettare l’altro come colui che non è ciò che egli pensa debba essere. Un vero dialogo, il dialogo come vita − al modo in cui lo chiamava mio padre, il primo imam Shamseddine −, è accettare l’altro come egli offre se stesso. Non si dovrebbe cercare di convertirlo in quel che siamo, ciò che significherebbe duplicarlo, clonarlo. Dialogo non è qualcosa come inventare una nuova religione che smussi le differenze, no: è accettare le persone con la fede che hanno.

“Il fondamentalismo è sempre una falsificazione della religione” ha detto Benedetto XVI in viaggio verso il Libano. “Va contro l’essenza della religione, che vuole riconciliare e creare la pace di Dio nel mondo. Dunque, (…) un’alta purificazione della religione da queste tentazioni è sempre necessaria”. Che ne pensa?

Sono d’accordo col Papa che il fanatismo è contro l’essenza della religione. Il fanatismo è il prodotto dell’uomo, sono le persone ad essere fanatiche, non la religione. Quanto alla purificazione,  il Papa non chiarisce in quel discorso come la Chiesa dovrebbe assumere questa missione tra i cristiani. Il modo in cui comprendo la purificazione è quello di attuarla mediante insegnamenti chiari e limpidi, assumendo ciò che attiene la religione a partire dalle sue fonti corrette e legittime e non dai media o da giornali sensazionalistici o da cristiani o musulmani che fanno scalpore; astenendosi dall’uso della religione come strumento politico, e impedendo ai politici, per quanto possibile, di diffondere la paura in nome della religione; attraverso un lavoro a stretto contatto con i governi per avere un migliore sviluppo del paese, riducendo la povertà e aumentando la libertà. Una purificazione è necessaria nell’ambito socio politico; è progressiva, nel senso che rivela di più l’essenziale con il progredire del tempo. Ma non si fa modificando la religione in quanto tale, che non è modificabile.

Torniamo al Libano, terra di fedi diverse. Che cos’è il Libano da questo punto di vista? Un accidente storico, un errore? O, all’opposto, questa caratteristica fa di esso una missione? 

Il Libano non è un errore storico, e nemmeno è frutto del caso. Il Libano esiste per la volontà e la determinazione del suo popolo. Questo popolo è fatto insieme di musulmani e cristiani e vuole rimanere tale. Sì, il Libano è un messaggio e una missione, ed è quello che intendevo prima dicendo che è una patria che occorre reinventare ogni giorno. Il Libano è l’opera dei libanesi ed essi continueranno a costruirlo, a svilupparlo e a preservarlo. A dispetto di tutti i problemi e le difficoltà attuali, sono ottimista sul futuro del Libano e sulla convivenza che cristiani e musulmani sapranno costruire insieme. Sono anche ottimista sul futuro di entrambe le religioni nel Libano e nel Medio oriente. 

Il Papa ha parlato di “società plurale”. Cosa significano queste parole per lei, che è anche una personalità pubblica, in termini sociali e politici?

Le grandi cose non capitano per caso, ma hanno bisogno di tempo per essere fatte. Dico sempre che dio ha creato il mondo in sei giorni non perché fosse una missione particolarmente complicata e difficile per lui; quando dio decide di creare qualcosa, gli basta dire “sii”, ed essa è. La lezione che ci viene dal tempo impiegato nella creazione è che i grandi obiettivi hanno bisogno di tempo per essere realizzati, e che il tempo stesso è una componente di ogni accadimento. 

(Federico Ferraù)

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