Si chiamava Maya Naser, ed era un corrispondente della tv pubblica iraniana in lingua inglese “Press”. E’ morto mentre stava facendo il suo lavoro, tra le strade di Damasco, ucciso vigliaccamente da un cecchino. Con lui, è rimasto ferito Hussein Murtada, capo dell’ufficio di Damasco della tv iraniana Al-Alam. Entrambi si trovavano sul posto per documentare gli attacchi al ministero della Difesa, preso d’assalto da una serie di esplosioni. Ogni volta che accadano tragedie simili, viene spontaneo interrogarsi sull’insensatezza della guerra. E chiedersi cosa spinga queste persone a rischiare la propria vita per fare il proprio mestiere. Lo abbiamo chiesto a Claudio Accogli, inviato di guerra dell’Ansa vivo per miracolo, dopo essere scampato, a giugno, ad un attentato in Siria.
Perché lei rischia la vita per documentare la guerra?
Non riesco e rispondere altro che: ”qualcuno lo deve pur fare”. Semplicemente, avverto la responsabilità del mio lavoro fatto seriamente. Specialmente in questi Paesi in cui la censura è fortissima e la propaganda molto ben strutturata. Mi riferisco, per quanto mi riguarda, alla Sira, alla Libia prima e dopo Gheddafi, e all’Iran, dove le tv e i giornali sono usati, di norma, come megafono delle posizioni governative. Senza andar là di persona, quindi, è estremamente difficile capire cosa stia succedendo.
Internet, Youtube, Twitter e via dicendo non sono sufficienti?
No. Prendiamo, ad esempio, in considerazione le recenti notizie, costituite da filmati o immagini, relative ai massacri siriani. Per molto tempo, i giornali le hanno riportate con il beneficio del dubbio, ritenendole da prendere con le pinze perché probabile strumento di propaganda di entrambe le parti. Solo quando un collega della Cnn si è trovato ad Aleppo e ha visto di persona l’estrazione di decine di bambini morti dalla macerie, si è iniziato a capire che molti di quei video erano realistici.
Eppure, i rischi, sono tanti
Ogni volta che qualcuno di noi si reca in quei posti, ovviamente, non pensa che finirà per soccombere sotto i colpi di un mortaio, di un bazooka, di un razzo Rpg o di un cecchino; ciascuno presta la massima attenzione ed esistono accorgimenti e modi di muoversi che assicurano la massima sicurezza. Ovviamente, può capitare anche il peggio. Questo lo mettiamo in conto.
Non c’è nessuno che lo fa per adrenalina?
Non direi. Al limite, per alcuni diventa una sorta di sindrome analoga a quella che colpisce i soldati di ritorno dalla guerra; molti giornalisti, una volta tornati a casa, non riescono a sopportare di stare tra quattro mura per più di qualche giorno.
Quali sono i posti maggiormente a rischio?
Paradossalmente, nei Paesi in cui sono aperti dei conflitti, i teatri di guerra vera e propria sono molto meno pericolosi di molti altri posti. Ovvero: in un campo di battaglia, dove il combattimento è aperto, si conoscono le zone in cui si trovano i soldati dello schieramento avversario, si sa da dove potrebbero arrivare i colpi e ci si attrezza per non trovarsi in mezzo ai due fuochi. Il vero pericolo consiste nel non sapere quando, come e da dove si potrebbe essere attaccati.
Come nel suo caso?
Esatto. Mi trovavo a Daraa, 100 chilometri a sud di Damasco, a bordo di un’auto, all’interno di un convoglio governativo. A un certo punto, l’auto di fronte alla mia, che ci stava scortando, è stata colpita in pieno da un razzo Rpg. Una persona è morta, tre sono rimaste ferite, di cui una gravemente. Eppure, era un giorno tranquillo, intorno regnava la quiete. Nessuno pensava che quel giorno ci sarebbero potuti essere rischi.
Attraverso quali canali si raggiungono gli scenari di guerra?
C’è una modalità ufficiale: si fa una richiesta all’ambasciata italiana che viene inoltrata al Paese che si intende raggiungere. Nel caso in cui si ottenga il visto, una volta raggiunta la meta si può essere, sostanzialmente, da soli, o affiancati da esponenti governativi. La seconda via, più pericolosa, ma che consente di accertare maggiormente le notizie, è quella clandestina.
A lei è mai capitato di entrare in un paese clandestinamente?
Mi è capitato in Libia. Ho seguito l’avanzata dei ribelli dalla montagne a sud di Tripoli, entrando a bordo di un loro camioncino. In seguito, con dei colleghi, abbiamo seguito l’entrare in città e, in seguito, a Sirte, grazie ad un locale che si era messo a nostra disposizione (dietro pagamento giornaliero) con un camioncino.
(Paolo Nessi)