Il progetto Avsi nel campo profughi di Dadaab, in Kenya, sarà presentato come modello di cooperazione internazionale nel quartier generale delle Nazioni Unite a New York. L’Onu ha invitato Adrawa Deogracious Droma, responsabile del programma nato da una collaborazione tra la ong italiana e quella ugandese Permanent Center for Education. Il rappresentante Avsi parlerà in occasione del congresso dal titolo “La società civile e l’educazione ai diritti umani come strumento per la promozione della tolleranza religiosa”, organizzato nell’ambito della 67esima assemblea generale delle Nazioni Unite. Di fronte alla minaccia della guerra e della carestia che affliggono la Somalia, migliaia di profughi stanno abbandonando il Paese per trovare rifugio in Kenya, e Avsi dà una risposta al bisogno educativo di queste persone. Ilsussidiario.net ha intervistato Deogracious Droma per chiedergli di raccontare in anteprima i contenuti del suo intervento del 27 settembre prossimo.



Di che cosa vi occupate nel campo profughi a Dadaab?

Nel campo mancano insegnanti qualificati, e noi stiamo collaborando con le università del Kenya per preparare maestri scegliendoli tra gli stessi rifugiati. La maggior parte dei docenti kenioti ritengono che quello nei campi profughi non sia un lavoro stimolante. Abbiamo quindi assunto l’iniziativa di formare gli sfollati a svolgere questa professione. L’Avsi e il Permanent Center for Education di Kampala, insieme a Unhcr, Unicef e Fao, hanno organizzato più di 30 workshop cui hanno partecipato oltre 2mila rifugiati.



Quali sono le caratteristiche del vostro progetto?

Prima ancora di formare professionalmente i nuovi docenti, il nostro obiettivo è quello di impegnarci con la loro umanità, a partire dal fatto che l’insegnamento può essere un’avventura affascinante sia per il maestro sia per l’allievo. Ciò ci ha permesso di interagire con un grande numero di rifugiati che aspirano a fare gli insegnanti, dai quali abbiamo ricevuto delle risposte molto positive. Il nostro presupposto è che l’educazione è innanzitutto una compagnia, un viaggio che insegnante e studente compiono insieme.

Come hanno reagito i rifugiati somali alla vostra proposta?



I workshop sono stati l’occasione per superare le barriere che a priori avrebbero potuto dividerci. Inizialmente temevo molto i rischi insiti nelle differenze religiose e culturali, che potevano essere di ostacolo alle nostre proposte. Tutti i somali sono infatti musulmani, mentre i rifugiati di Dadaab provenienti da Sudan e altre parti del Kenya sono protestanti, e si definiscono i “born again”, cioè i nuovi nati. Ciò di cui ci siamo resi conto nel tempo è che il cuore dell’essere umano è lo stesso a prescindere dalle differenze culturali e religiose.

 

Ciò che conta quindi è rivolgerci a questo nucleo originale. In che modo siete riusciti a farlo?

 

La prima volta che mi sono recato a Dadaab, mi ero proposto di non parlare di religione e tradizioni culturali, ma era molto difficile insegnare a prescindere del tutto da questi temi. Con il tempo mi sono reso conto che l’unico modo per entrare in rapporto con queste persone era il fatto di guardare a ciò che aveva cambiato la mia vita. Nel momento in cui ho iniziato a comunicare questo fatto, mi sono sentito libero nei loro confronti.

 

Che cosa ha cambiato la sua vita?

 

E’ stato qualcuno che mi ha guardato aiutandomi a riconoscere la mia unicità e il mio valore. Non è stato nulla di complicato, ma soltanto uno sguardo umano. Rimettere a fuoco questo mi ha permesso di avere un punto di partenza per guardare nello stesso modo anche i rifugiati somali. Ho capito che l’importante non era il fatto di parlare o meno delle differenze culturali, ma che era sufficiente che sia io sia i rifugiati somali trovassimo una risposta a ciò che cerca il cuore di ogni uomo.

 

Infine, una domanda sulla carestia in Africa Orientale. Sta mietendo ancora vittime o si è placata?

 

Non ho verificato di persona le reali dimensioni della situazione in Somalia, ma dal mio punto di osservazione a Dadaab posso dire che c’è una massa di rifugiati che ogni giorno raggiunge il campo profughi. La situazione di insicurezza riguarda anche l’aspetto militare, con Uganda e Kenya che di recente hanno inviato le loro truppe oltreconfine. E’ probabile che la popolazione somala fugga verso Dadaab anche per questo motivo.

 

(Pietro Vernizzi)

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