Due milioni di catalani in piazza a Barcellona: è il seguito delle grandi manifestazioni dello scorso anno che riportano in primo piano la questione dell’indipendenza della Catalogna. Che nelle ultime ore ha anche annunciato di andare al referendum sull’indipendenza di propria iniziativa, atto ovviamente anti costituzionale che sancisce una vera e propria rottura istituzionale. Con il ritorno in piazza anche degli indignados che nei giorni scorsi hanno tentato l’assalto al Parlamento, la Spagna sembra andare in fiamme. Secondo Massimo Costa docente all’università di Palermo ed esperto di federalismo, “indignados e Catalogna sono i detonatori di una crisi economica che ha messo in strada centinaia di migliaia di persone, legata a politiche europee suicide”. Una crisi economica dovuta, spiega, anche a una economia molto assistenziale, ma anche a una politica europea sconsiderata: “L’Unione europea non fa trasferimenti, ma solo prestiti diciamo pure a usura, questo sistema sta esplodendo dappertutto e con buona pace di quello che dice Mario Draghi credo sia pure una situazione ingovernabile”.



Professore, lei vede qualche collegamento tra il ritorno in piazza degli indignados contemporaneamente alla richiesta di indipendenza della Catalogna?

Sono questioni intrecciate ma distinte. Il problema degli indignados e quello della Catalogna è legato alle politiche europee che a mio avviso e per fortuna anche di qualche premio Nobel ben più importante di me, sono politiche suicide.



In che senso?

Quanto sta attuando l’Unione Europea nei confronti dei Paesi più deboli è assolutamente insostenibile. Questa è la matrice comune delle due problematiche. Nel caso catalano si aggiunge una questione nazionale vecchia di secoli che risale alla soppressione del parlamento catalano nel 1707 che provocò una frattura specifica all’interno della Spagna causata dal centralismo borbonico. Forse molti italiani conoscono poco questi fatti:  le Cortes catalane rappresentavano uno stato autonomo tanto che fino al XVII secolo il Re si definiva Re delle Spagne, una confederazione di corone tenuta assieme. A partire dal Settecento i catalani pagarono un prezzo altissimo e questi nodi stanno venendo al pettine.



Lei crede che l’esplosione in contemporanea di questi due fenomeni, indignados e indipendentisti, avrà che tipo di conseguenza?

Indignados e Catalogna sono detonatori di una crisi economica che ha messo centinaia di migliaia di persone in mezzo alla strada, anche per colpa di una economia molto assistenziale, che non ha trovato sostegno europeo. 

Ci spieghi questo passaggio.

La moneta unica si regge in un sistema economico diseguale solo se ci sono perequazioni fiscali, ma se non ci sono il più povero deve svalutare altrimenti è condannato a morte. Questo errore si è fatto in Italia nel 1860 e da quel momento è nata la questione meridionale cioè una forzata unione monetaria e doganale fra due Paesi diversi. Questo stesso errore si sta commettendo a livello europeo ma in modo più grave perché l’Italia ha sì creato la questione meridionale però l’ha alimentata con il flusso assistenziale che non creava sviluppo ma consentiva sopravvivenza.

Invece l’Unione europea?

 

L’Unione europea non fa trasferimenti ma solo prestiti diciamo pure a usura e questo sistema sta esplodendo dappertutto e con buona pace di quello che dice Mario Draghi credo sia pure ingovernabile.

 

Esaminiamo la questione Catalogna: di che tipo di autonomia godono le regioni spagnole?

 

L’autonomia spagnola è una autonomia differenziata un po’ come quella italiana, nel senso che ci sono le regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale. In Spagna questa situazione è generalizzata nel senso che le varie regioni è un po’ come se fossero tutte a statuto speciale e  hanno gradi diversi di autonomia, negoziati di volta in volta con il governo.

 

Ci faccia qualche esempio.

 

Penso a molte regioni della parte centrale della Spagna come la Grande Castiglia e altre come l’area metropolitana di Madrid che hanno un grado di autonomia limitato, altre come la Castiglia Leon o l’Estremadura hanno gradi di autonomia più avanzati ma sempre molto diversi gli uni dagli altri.

 

Dunque una diversificazione del livello di autonomia.

 

Ci sono regioni bilingue, ci sono regioni che godono di condizioni fiscali vantaggiose come le isole Canarie che addirittura sono fuori dalla linea doganale europea, cioè come se allo stesso tempo facessero e non facessero parte dell’Unione europea. Personalmente suggerii una linea analoga per la Sicilia ma venni considerato un eretico.

 

 

 

Infine la Catalogna.

 

Ci sono tre grandi regioni storiche autonome dove si riscontrano tutte queste condizioni, e cioè la Galizia, ma soprattutto il paese Basco e la Catalogna. Quest’ultima ha avuto due statuti di autonomia uno dopo il franchismo ricalcato su quello degli anni 30 che però fu soppresso dopo la guerra civile. Tra l’altro quello statuto della Catalogna degli anni 30 è uno dei modelli a cui ci si è ispirati per lo statuto della regione Sicilia. il primo statuto era relativamente moderato. Dopo una trentina di anni hanno chiesto un livello di autonomia più ampio e lo hanno avuto ai primi del Duemila, in cui praticamente c’è una autonomia fiscale quasi totale e in cui si parlava anche di nazione catalana. La Corte costituzionale aveva bocciato la dizione di nazione e lo scorso anno contro questa decisione un milione di catalani scese in piazza. 

 

Nelle proteste di questi giorni si parla di scarsa di autonomia fiscale della Catalogna.


Quest’anno la stretta europea ha portato il governo a riprendersi o tentare di riprendersi alcuni pezzi della finanza locale che erano stati dati alle regioni e in particolare la Catalogna che si sente il motore della Spagna pensa seriamente a una indipendenza.

 

Però proprio la Catalogna recentemente ha chiesto a Madrid 5 miliardi di euro di aiuti.

 

Questa questione del debito va meglio affrontata di quanto si faccia nei media. E’ chiaro che come in Sicilia quando lo Stato prende tutte le entrate e ne da indietro solo una parte, passando alle regioni gran parte delle funzioni pubbliche, è normale che i bilanci facciano acqua. La storia del debito andrebbe vista in maniera più complessiva.

 

Che paragoni si possono fare con la nostra questione del federalismo, a cui adesso si aggiunge l’idea delle macro regioni?

 

Diciamo intanto che l’attuale governo ha frenato sul federalismo. Di fatto lo ha arrestato buono o cattivo che fosse. La tendenza in tutta Europa è quella di centralizzare le finanze, ricondurle al centro, ma se si svuotano gli Stati di autorità fiscale e rimangono le regioni non si è combinato niente. Bisogna svuotare di autorità fiscale anche le regioni. 

Il federalismo che si stava tentando secondo lei era la strada giusta?

 

Maroni disse una volta che lo statuto siciliano sarebbe andato benissimo al nord. E’ una cosa vera: pochi conoscono lo statuto siciliano e bisogna anche dire che non è mai stato applicato, cioè l’attuale rapporto fra Stato e regione Sicilia è del tutto difforme da quello che c’è scritto nello statuto.


E se fosse applicato interamente?

 

Se si applicasse a tutta l’Italia si andrebbe incontro a un problema molto serio. Certe autonomie sono possibili solo al di sopra di una certa soglia critica. Penso al Molise, alla Liguria o alla Basilicata e a tante micro regioni che furono fatte nel dopoguerra perché erano i compartimenti statistici in cui si divideva il Regno d’Italia. Senza voler offendere quelle regioni, non hanno una vitalità tale da poter dare loro una piena autonomia fiscale. Magari possono avere una piena autonomia amministrativa ma non quella fiscale.

 

Delle macro regioni che idea ne ha?

 

Se pensiamo che in teoria  la Sicilia potrebbe deliberare i propri tributi una facoltà analoga potrebbe essere data alle macro regioni, non certo alle regioni. Una prospettiva radicale di questo tipo potrebbe essere pensata per tre, quattro regioni, isole escluse che ovviamente fanno storia se, e non certo per le vecchie regioni che ci sono oggi. Poi parliamoci chiaro le macro regioni sono una soluzione che potrebbe anche portare alla dissoluzione dell’Italia. Il federalismo che si stava facendo aveva invece almeno in teoria la finalità di tenere unito il Paese.