“Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti”. Sono le parole di Robert Fisk, uno dei primi giornalisti ad entrare nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila. Le milizie falangiste li avevano invasi nel tardo pomeriggio del 16 settembre e ne uscirono due giorni dopo, verso l’una del 18 settembre. Alle loro spalle si lasciarono un numero, ancora oggi, imprecisato di vittime. Gli assassini, infatti, cercarono di nascondere la gravità del massacro portando fuori dai campi, a bordo di camion, centinaia di corpi e tutto sotto gli occhi dei soldati israeliani che circondavano i campi profughi. Per questo le cifre variano: 460 vittime secondo il procuratore capo dell’esercito libanese; circa 800 per i servizi segreti israeliani; tra 1000 e 1500 vittime per la Croce Rossa Internazionale; forse 3500 per alcune fonti palestinesi.
Prima che nei numeri l’orrore di quella strage, che si compì 30 anni fa, rimane fermo nelle parole e nelle foto di coloro che allora furono testimoni. Ancora oggi è possibile rileggere, con facilità, articoli che allora sconvolsero una parte dell’opinione pubblica occidentale, come quello di Loren Jankins, che apparve sul Washington Post: “La scena nel campo di Shatila, quando gli osservatori stranieri vi entrarono il sabato mattina, era come un incubo. In un giardino, i corpi di due donne giacevano su delle macerie dalle quali spuntava la testa di un bambino. Accanto ad esse giaceva il corpo senza testa di un bambino”. Furono poi le foto, scattate in quelle prime ore del dopo massacro, a valere, forse, più di migliaia di parole messe insieme. Le foto più tragiche e significative furono scattate da Mya Shone e da Ryuichi Hirokawa, l’una fotografa americana l’altro fotografo giapponese. Negli anni successivi a quel 1982, con tenacia, portarono quelle foto in giro per il mondo, in mostre e conferenze. Segno di un legame tra loro e quella tragedia che è andato ben oltre il dato professionale.
Quelle foto, oggi, sono forse sbiadite? Papa Benedetto XVI, pochi giorni fa, prima ancora di toccare il suolo libanese, ha voluto ricordare che il suo viaggio cadeva nel trentesimo anniversario della strage di Sabra e Chatila. Tuttavia, in Libano e anche fuori dal Libano, poco è stato fatto per ricordare quella strage ed i suoi responsabili e molto invece negli anni passati per rimuovere quel ricordo e l’atto d’accusa che da esso giunge.
L’alibi è stato che “il sangue chiama sangue” e questo non è vero, perché a Sabra e Chatila ci si accanì contro vittime inermi ed innocenti. In ogni caso, si disse che le milizie cristiano-falangiste, guidate da Elie Hobeika, cercavano la loro vendetta per l’uccisione, avvenuta in un attentato il 14 settembre, del presidente libanese Bashir Gemayel, figlio del fondatore delle Falangi libanesi. Nessuna inchiesta fu mai avviata in Libano, neppure dopo la fine della guerra civile. Anzi Elie Hobeika divenne deputato e più volte ministro.
E’ morto in un attentato nel gennaio 2002, appena prima di aver dato, in via confidenziale, la sua disponibilità a testimoniare davanti ai giudici belgi su quella strage. Le pressioni internazionali, in primo luogo quelle di Israele, spinsero il Parlamento belga a rivedere le proprie leggi, riducendo la competenza della propria magistratura. La Corte di Cassazione belga fu così costretta ad archiviare l’indagine sulla strage di Sabra e Chatila e sulle responsabilità di Ariel Sharon, nel 1982 ministro della difesa israeliano.
La società libanese non ha dunque aperto le porte del carcere né ha sbarrato la strada della politica all’esecutore materiale della strage. Altro destino sembrava aver destinato la società israeliana ad Ariel Sharon. Ancora oggi si ricorda in Israele l’enorme manifestazione di piazza che si svolse all’indomani della strage. In quella manifestazione, che chiedeva anche le dimissioni di Sharon, fu segnato il destino politico dell’allora ministro della Difesa. Fu poi la Commissione guidata dal giudice Kahan ad affermare che l’esercito israeliano era al corrente dell’operazione dei falangisti, ma non fece nulla per impedirla. In seguito al rapporto della Commissione Ariel Sharon fu costretto a dimettersi. Tuttavia, la sua rinascita politica, l’ascesa all’interno del partito di centrodestra Likud, la sua feroce opposizione agli accordi di Oslo, la famosa passeggiata sulla Spianata delle Moschee o Monte del Tempio, la sua vittoria elettorale, l’elezione a primo ministro hanno dimostrato un cambiamento della società israeliana, amaro e sorprendente per molti di quegli israeliani che nel 1982 erano scesi in strada contro di lui. Né il ritiro da Gaza, né la fondazione del partito Kadima, voluto da Sharon, hanno modificato in loro quel giudizio.
Sangue lava sangue. Così è stato, spesso, in Libano: come il 18 gennaio del 1976 con la strage di musulmani a Karantina e due giorni dopo con l’eccidio di cristiani a Damour. Tuttavia, il coraggio della memoria non è ancora, in molti, una virtù praticata. Si preferisce rimuovere i propri errori e raccontare quegli degli altri.
Ed allora vale la pena ai margini della strage di Sabra e Chatila ricordare il comportamento del colonnello e poi generale Franco Angioni. I soldati italiani, insieme a quelli francesi ed americani, erano andati via pochi giorni prima della strage, quando si era concluso l’imbarco di Arafat e dei guerriglieri palestinesi, dal porto di Beirut verso la Tunisia. Quando gli italiani tornarono, per proteggere i sopravvissuti alle stragi, Angioni diede l’ordine che nessuno potesse girare armato nelle strade poste sotto il controllo italiano. Nessuno obbedì, né i miliziani sciiti musulmani, né tantomeno i miliziani falangisti cristiani, alcuni ancora ebbri di ciò che avevano compiuto pochi giorni prima.
“I soldati italiani, cristiani, state certi, non ci faranno niente”, questo dicevano i falangisti. Angioni diede un ordine, che fu eseguito nella notte: furono arrestati tutti i miliziani armati in strada, a partire dai falangisti. L’indomani lo stupore aveva colto le milizie sciite. “Quest’uomo è giustov- dicevanov- non è venuto qui per appoggiare i falangisti, anche se lui è un cristiano”.
I comandanti sciiti decisero, in quel momento, che i loro miliziani non sarebbero più andati in giro armati nelle strade di Beirut controllate dagli italiani. La stima ed il rispetto per gli italiani, tra le gente di Beirut, iniziò in quei giorni e, ne sono testimone, dura ancora oggi. E nel miscuglio di etnie e religioni Angioni compì, forse inconsapevolmente, un gesto buono anche per la presenza futura dei cristiani.