Facendo sfoggio di una sorprendente capacità diplomatica (se non di un’inattesa attitudine a dare prove magistrali di umorismo involontario), “fonti di intelligence” contattate dall’agenzia Adnkronos hanno definito l’attentato subito lo scorso sabato sera dal console d’Italia a Bengasi, Guido De Sanctis, “Non un attacco mirato, un atto ostile nell’ambito di qualche strategia anti-italiana”, quanto piuttosto un episodio che può inquadrarsi nella “volontà di colpire la presenza occidentale in una fase storica in cui gli animi sono particolarmente accesi”. La notizia, tempestivamente ripresa ieri da Ilsussidiario.net, allunga un’ombra oscura sul ruolo dei nostri servizi segreti: se le proverbiali “barbe finte” rubano il mestiere da un lato ai diplomatici e dall’altro ai comici da chi i nostri governi potranno sperare di avere le dritte che ci si attendono da loro?
Fatto sta che – a pochi giorni dalla conclusione del suo periodo di servizio in Libia e dal suo trasferimento da Bengasi a Doha – alcuni individui dall’animo particolarmente acceso hanno teso un agguato al console Guido De Sanctis annaffiando di raffiche di armi automatiche la sua auto blindata. Non sarà stato un “attacco mirato”, ma pur casualmente il console e il suo autista avrebbero lasciato la scena di questo mondo se la blindatura dell’auto non fosse stata all’altezza della situazione, facendo così la stessa fine che purtroppo l’11 settembre scorso avevano fatto nella stessa Bengasi l’ambasciatore americano Chris Stevens e altri tre suoi connazionali, i cui nomi non vennero poi resi noti. Come era Stevens, così anche De Sanctis non è in Libia un diplomatico qualsiasi. E’ un esperto di affari libici che nel febbraio 2011, allo scoppio della rivolta contro Gheddafi, era stato inviato a Bengasi a dare man forte agli insorti.
Avendo in precedenza servito in Libia presso la nostra rappresentanza diplomatica a Tripoli, De Sanctis da Mosca ove si trovava venne allora richiamato a Roma, e da Roma spedito a Bengasi, che come Stevens aveva raggiunto con un viaggio rocambolesco avvalendosi di mezzi di trasporto che per così dire erano probabilmente a carico misto. Rappresentava l’Italia a Bengasi quando il nostro governo del tempo riconobbe come interlocutori ufficiali gli insorti anti-Gheddafi del Consiglio nazionale di transizione, Cnt, ivi costituito. Fu lui a organizzare e a garantire la sicurezza delle visite-lampo in Libia dall’allora ministro degli Esteri, Franco Frattini, ancor prima della caduta di Tripoli e dell’uccisione di Muammar Gheddafi; e poi a riaprire la sede del consolato italiano a Bengasi, che nel 2006 era stata devastata e saccheggiata da una folla di manifestanti. Raggiunto per telefono dall’agenzia Ansa poco dopo l’attentato, con grande professionalità De Sanctis si è limitato a dire, “Sto bene”, senza aggiungere altro.



Rimandando a quanto sull’argomento già ho scritto su Ilsussidiario.net, in particolare lo scorso 22 ottobre, mi limito qui a sottolineare concludendo che la situazione in Libia è quanto mai instabile che, sia in forza del passato che del presente, nessuno più del nostro Paese può e quindi deve fare una politica attiva di aiuto alla pacificazione facendo innanzitutto leva sull’avvio di progetti di sviluppo condiviso. E’ inutile, e prima ancora è pericoloso, lasciare ad altri responsabilità che sono nostre. Non fa che aumentare il rischio che persone di animo “particolarmente acceso” volendo sparare nel mucchio contro l’Occidente finiscano per sparare a noi. Come già scrivevo, bene che in Libia ci sia l’Eni, ma da sola l’Eni non basta.

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