Devo ammettere che un po’ me l’aspettavo. Devo anche ammettere che ci sono rimasto comunque male. L’altra mattina alla radio discutevano del tasso di disoccupazione, fresco fresco di elaborazione: 7,8%, praticamente identico a quello del mese scorso. Non poco, se si pensa che questo è il “tasso ufficiale”. Quello “reale” è ben più alto. Ma questo ve lo spiego un’altra volta, perché non è questa “la notizia”. La notizia è che a commento della situazione occupazionale, la radio ha tirato fuori i dati di un sondaggio condotto su un campione apparentemente significativo di popolazione giovanile. In particolare, giovani alla ricerca di occupazione.



Interpellati su desideri e aspettative rispetto al lavoro, la maggioranza avrebbe risposto che quel che cerca e agogna è “job stability”. Detto in parole povere, molto povere, “un posto”. Da quando in qua in America si cerca “il posto”? Non è questa la terra delle opportunità dove uno degli slogan di sempre è “se lo sogni lo puoi realizzare”? Dove la Nike ti dice “puoi farcela”, dove lo Stato ti dice che se vuoi mettere su un tuo business non sarà certo lui, lo Stato, a complicarti la vita prima ancora di cominciare perché ci sarà il mercato a metterti alla prova.



Mi ricordo una pubblicità televisiva di qualche anno fa. Una mandria di bisonti al galoppo nella sconfinata prateria, un orizzonte illimitato davanti. Una voce fuori campo “Se rimani dietro questo è lo spettacolo che ti tocca”, con inquadratura su una sfilza di posteriori di bisonte. Non so se mi spiego.

Il “posto”? E io che continuo a insistere sul fatto che questo è un Paese giovane, dove la gente non si accontenta e, nel bene o nel male, non si vergogna di dire che nulla mai basta. Forse non c’è da fidarsi di quel sondaggio. In fondo i sondaggi non possono darti una corretta e completa rappresentazione di una mentalità, dei valori che animano la giornata e il cammino di tutta una vita. Però certamente un sondaggio coglie dei segnali, delle possibili indicazioni di cambiamento.



Insomma, un segnale quel sondaggio lo individua, un cenno di cambio di mentalità in questo Paese di grandi contraddizioni. Perché per quanto possa essere banale dirlo, è proprio vero. Siamo un Paese senza Stato sociale che sembra improvvisamente sentire i morsi di questa mancanza. Dello Stato sociale si può fare a meno quando il nostro intraprendere porta frutto. Qui si viene su cominciando a lavorare sin gli anni di scuola, prendendo quel che capita come trampolino verso la costruzione dei propri sogni. Adesso che tutto è in stallo, adesso che si fa fatica a trovare quel primo lavoro, quel punto di accesso verso il trampolino di lancio, il pensiero che forse faremmo bene a “volare più basso” si insinua e diventa una tentazione seria.

Qualcuno mi dà un lavoro, “un posto”? Non abbiamo appena vissuto una campagna presidenziale in cui i candidati si tiravano in faccia cazzotti a suon di numeri di posti di lavoro che avrebbero creato? Se non c’è spazio per i miei sogni, che almeno qualcuno mi dia un posto! Io sono convinto (non mi vergogno a dirlo – l’ho sempre detto e continuerò a farlo) che le azioni intraprese dall’Amministrazione Obama sul fronte socio-politico-occupazionale contribuiscono a intaccare quella baldanzosa, temeraria e a volte presuntuosa industriosità degli americani, sventolando la bandiera di una socialdemocrazia irrealizzabile. Producendo come primo effetto, soprattutto nei giovani, l’abbassamento della soglia del “desiderio” e l’innalzamento di quella della “pretesa”.

Purtroppo i Repubblicani sembrano non conoscere altra risposta che la solita “non penalizziamo i ricchi, perché sennò chi genera lavoro”. Poco, troppo poco in un Paese dove istruzione, sanità e pensione costano al cittadino qualunque un occhio della testa, spesso anche due.

Non sarà “il posto” a salvarci. Qui bisogna cominciare a chiedersi seriamente cosa voglia dire lavorare, che cosa voglia dire che io il lavoro c’è l’ho e tu no. Bisogna cominciare a chiedersi cosa voglia dire essere una Nazione.

C’è nessuno che ha voglia di parlare di questo?

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