Benjamin Netanyahu esce vincitore dalle elezioni per il rinnovo della Knesset, il parlamento israeliano, e si conferma primo ministro per la terza volta. Bibi esulta, annuncia di voler creare “la coalizione più ampia possibile”, ma l’alleanza Likud-Yisrael Beitenu con cui si è presentato alle urne delude le aspettative e ottiene 61 seggi su un totale di 120, 11 in meno rispetto ai 42 della scorsa legislatura. La grande sorpresa di queste elezioni è invece il partito centrista Yesh Atid (“C’è un futuro”), guidato dall’ex commentatore televisivo Yair Lapid, a cui Netanyahu ha già allungato una mano per la formazione del nuovo governo. Tale politica di alleanza ovviamente non piace al tre volte primo ministro, il quale avrebbe fatto volentieri a meno di una stagione di trattative e compromessi che inevitabilmente dovrà ora affrontare. Abbiamo commentato i risultati di queste elezioni con il giornalista Ugo Tramballi, inviato ed editorialista del Sole 24 Ore ed esperto di Medio Oriente.
E’ rimasto sorpreso dall’esito delle urne?
Nonostante la sorpresa del partito centrista Yesh Atid o del non eccezionale risultato di Netanyahu, tutto sommato un esito del genere era largamente previsto. Sarà dunque il premier uscente, per la terza volta, a dover costituire il nuovo governo israeliano.
Cosa significano però quegli 11 seggi in meno conquistati da Netanyahu, alla guida dell’alleanza Likud-Yisrael Beitenu?
Credo sia abbastanza comune, anche in altri Paesi, che un’alleanza tra partiti simili tra loro ottenga un risultato decisamente al di sotto delle aspettative. Pensando all’Italia, mi viene in mente il clamoroso flop che fecero registrare il partito liberale e quello repubblicano quando decisero di unirsi alle Europee. Bisogna poi dire che l’elettorato di Netanyahu è di destra e proprio in quell’area il fenomeno nuovo (ma non così clamorosamente nuovo) è rappresentato dall’estrema destra di “Casa Ebraica” di Bennett. Buona parte dell’elettorato del Likud, quindi, è passato probabilmente ancora più a destra, riconoscendosi maggiormente in questa estremizzazione del tribalismo ebraico.
Come giudica invece il grande risultato ottenuto da Yair Lapid alla guida del partito centrista Yesh Atid?
E’ senza dubbio un grande successo. Secondo le previsioni precedenti al voto questo partito non sarebbe andato oltre i 10 seggi, risultato che comunque sarebbe stato già importante, invece è stato capace di ottenerne ben 19. Anche in questo caso, però, dalla prima elezione che ho avuto modo di seguire, posso dire che in fondo è piuttosto normale vedere un partito uscire a sorpresa vincente dalle urne. Un tempo toccò proprio a quello del padre di Lapid, un partito duramente laico che in Italia verrebbe definito anticlericale. Il successo del figlio è in qualche modo simile.
Come mai?
In passato il sionismo sia di destra che di sinistra, quindi quello di Ben-Gurion o di Zabotisnky, ha sempre rappresentato una sorta di “risorgimento” molto politico e profondamente laico. Questa caratteristica laica di Israele dovette improvvisamente cambiare quando, dopo l’Olocausto, nacque lo Stato ebraico e dall’Europa arrivarono, in particolare dai ghetti e dai campi di sterminio, sopravvissuti che erano quasi tutti rabbini e ultraortodossi. Non dimentichiamo poi che Israele è un Paese che, dopo 64 anni, ancora non ha una Costituzione proprio per evitare di affrontare la questione del ruolo della fede e della religione.
Cos’è successo invece in queste elezioni?
I partiti nazional-religiosi, che comunque hanno fatto registrare anche loro un discreto successo, sono tornati a evidenziare questa contrapposizione tra nazionalismo religioso e quello laico. In più bisogna considerare anche il ruolo degli “haredim”, i timorati, gli ultraortodossi, a cui la società civile vuole togliere tutti i benefici di cui hanno potuto godere fino ad oggi, come l’esenzione dal pagamento delle tasse e dalle armi, quindi dalla difesa del Paese. Ecco, credo che il successo di Lapid risieda principalmente in questo, vale a dire in un fronte laico molto ampio, che va da sinistra al centro fino a una parte della destra, che ha votato proprio sulla base di questo scontro con l’elemento ultraortodosso della società israeliana.
Netanyahu ha dichiarato di voler adesso creare “la coalizione più ampia possibile”. Quali difficoltà dovrà affrontare?
Della questione palestinese non si è parlato molto in questo periodo elettorale, ma è evidente che è ancora fortemente presente. Gli americani, gli europei e la diplomazia internazionale riporteranno quindi al centro dell’attenzione tale dibattito, chiedendo agli israeliani un ritorno alla trattativa. Assisteremo dunque a una forte pressione statunitense affinché Netanyahu rinunci all’alleanza “naturale” con gli ultraortodossi e con Bennett e cerchi invece di fare un’alleanza aperta al centrosinistra, dai centristi fino ai laburisti.
Come si tornerà invece sulla questione iraniana?
Curiosamente Netanyahu ha evitato l’argomento durante la campagna elettorale, nonostante il tema del bombardamento dei siti nucleari iraniani sia stato il suo grande cavallo di battaglia in questi ultimi due anni. Adesso però, una volta vinte le elezioni e formato il governo, anche questo tema dovrà essere affrontato e Netanyahu, nel messaggio postelettorale, ha già elencato cinque punti in cui compare proprio questo argomento.
Senza il pieno consenso che avrebbe voluto, Netanyahu incontrerà maggiori ostacoli?
Questo è sicuro. Se Netanyahu avesse vinto in maniera più convincente avrebbe certamente potuto affrontare la questione iraniana con molta più forza. Con questo risultato, invece, senza un pieno consenso nazionale, Bibi si ritrova sostanzialmente solo a dover attuare un’operazione militare che in tanti considerano sbagliata ed estremamente pericolosa.
(Claudio Perlini)