Tarek Aziz – l’ex-vice primo ministro di Saddam Hussein detenuto nei pressi di Bagdad dal 2003 e sul cui capo pende dal 2010 una condanna a morte – piuttosto che continuare a vivere in carcere in attesa dell’esecuzione di tale condanna, sospesa facendo seguito ad appelli a suo tempo venuti sia dall’Unione Europea che dalla Santa Sede, preferirebbe venire giustiziato; e avrebbe intenzione di scrivere al Papa per chiedergli di sollecitare tale esecuzione.
E’ difficile dire se la notizia, diffusa dal suo avvocato difensore, sia del tutto vera. In ogni caso diffondendola l’avvocato ha fatto un buon servizio al suo cliente richiamando l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale su quello che ormai non è più un caso politico e nemmeno giudiziario, bensì semplicemente un caso umano. Nato nel 1936, cattolico caldeo (Tarek Aziz è uno pseudonimo, il suo vero nome è Mikhail Yuhanna), professore di letteratura inglese passato alla politica, ministro degli Esteri dal 1983 al 1991 e vicepresidente dell’Iraq dal 1979 fino all’attacco americano e alla conseguente caduta del regime nel 2003, Tarek Aziz fu, come molti ricorderanno, l’alter ego presentabile del presidente-dittatore iracheno Saddam Hussein. Arresosi agli occupanti americani il 24 aprile 2003 dopo alcune settimane di latitanza, venne più tardi consegnato alle autorità del nuovo governo istituito sotto la protezione degli Stati Uniti che, dopo vari anni di carcere senza processo, lo portarono dinnanzi a vari tribunali.
In quanto esponente di primo piano del regime di Saddam Hussein, le responsabilità politiche di Tarek Aziz sono obiettive. Ben altro discorso si può fare invece riguardo alle responsabilità morali soggettive, tanto e vero che persino i giudici dei tribunali speciali cui venne sottoposto faticarono molto ad arrivare a condannarlo a morte. Un primo processo si concluse il 2 marzo 2009 con la sua assoluzione. Pochi giorni dopo però venne processato di nuovo e condannato a 15 anni di carcere per crimini contro l’umanità. L’accusa era stata quella di complicità nell’uso di armi chimiche: accusa non solo poco fondata ma anche paradossale se si considera che le armi chimiche di cui l’Iraq di Saddam Hussein disponeva, tra l’altro per lo più ormai fuori uso, erano ordigni di produzione americana ricevuti all’epoca della guerra Iran-Iraq. Qualche mese più tardi, il 2 agosto, a questa condanna se ne aggiunse un’altra a sette anni per aver “contribuito a pianificare la deportazione dei curdi del Nord Iraq”. Il 26 ottobre infine venne condannato a morte per il ruolo avuto nella repressione della rivolta degli sciiti del Sud Iraq che, spinti da agenti segreti americani ad insorgere contro il regime quando nel 1991 gli Usa avevano per la prima volta attaccato l’Iraq, erano poi rimasti in balia di Saddam Hussein quando il presidente del tempo, George Bush senior, aveva deciso di interrompere l’attacco e ritirare le truppe che aveva inviato a invadere il paese.
Da allora, sospesa ma non annullata la pena capitale a seguito degli appelli di cui si diceva, Tarek Aziz continua a restare in carcere in sempre meno buone condizioni di salute, e a quanto pare anche molto depresso (non senza, è giusto aggiungere, molti buoni motivi per esserlo).
Personalmente ho una certa simpatia per Tarek Aziz iniziata quando a Ginevra, il 9 gennaio 1991, insieme a molti altri giornalisti di ogni parte del mondo, seguii la giornata dei suoi colloqui con il Segretario di Stato americano James Baker, l’ultimo tentativo che venne fatto per scongiurare quella che sarebbe poi passata alla storia come la guerra del Golfo. Sia lui che, almeno fino a un certo momento, anche Baker cercarono con autentica buona volontà di evitare le lacrime e il sangue di una guerra incombente. E una soluzione ragionevole alla crisi provocata dall’invasione irachena del Kuwait era stata prospettata, finché dall’alto venne evidentemente l’ordine a Baker di far fallire l’accordo.
Dopo quella guerra e poco prima di quella successiva ebbi occasione – non in veste di giornalista – di essere presente a colloqui con Tarez Aziz rispettivamente a Bagdad e a Roma. In tutte e due le circostanze mi parve un uomo che, stretto nella macina di forze da ogni lato ben più grandi di lui, cercava di fare tutto quanto di meglio poteva per il suo Paese, contribuendo anche così a rendere più facile o comunque meno difficile l’ardua sorte dei cristiani iracheni. Certamente è stato anche compagno di viaggio di un dittatore sempre pronto a spargere sangue. Questo è vero, ma non c’è questo soltanto. Perciò mi auguro, prego e confido si possa fare qualcosa perché il tempo che ha già trascorso in carcere e gli anni che ha già vissuto sotto l’incombenza della pena di morte gli siano riconosciuti in questa vita come una pena sufficiente.