Un Paese ormai periodicamente soggetto a esplosioni di rabbia, di sommosse, di repressioni brutali dove si deve aggiornare sempre il tragico elenco delle vittime. A due anni dalla cosiddetta “primavera araba”, l’Egitto svela le sue drammatiche ferite, ma lo scenario non è diverso in tanti altri Paesi del Medio Oriente e il contesto che si apre è quello contrassegnato da previsioni fosche, anche quello di un nuovo possibile conflitto mediorientale, dove si vedono le responsabilità di molti, comprese quelle di un Occidente politicamente miope, incapace di guardare alla realtà di quei Paesi, spesso più attento a “interessi di bottega” che a creare una stabilità in quella difficile zona del mondo.
Ieri mattina una calma precaria e tesa regnava su Port Said. Al Cairo ci sono sempre scontri tra piazza Tahir e il Ponte dei Leoni. Si contano i morti di sabato: 42, di cui 31 a Port Said, secondo fonti mediche. Le forze armate egiziane hanno lanciato un appello alla calma “per preservare il bene del Paese”. Ma l’appello sembra insufficiente di fronte all’ondata di violenza che scuote l’Egitto. L’ultimo innesco di questa tragedia è rappresentato dalla sentenza di condanna a morte per 21 imputati nella strage del febbraio dell’anno scorso, quando nello stadio di Port Said, al termine della partita di calcio, i tifosi del Masri si sono scagliati contro gli ospiti dell’Ahly. Ma questo è stato solo un detonatore, perché in tutto l’Egitto ci sono scontri in queste giornate in varie città per il secondo anniversario della rivoluzione, che si è trasformato in una giornata di proteste contro il presidente egiziano Mohamed Morsi e i Fratelli musulmani.
La realtà appare deformata, se non manipolata, dai media occidentali e dalle dichiarazioni dei governi del Medio Oriente. In realtà, ci sono una serie di domande senza risposta, per il momento. Magdi Cristiano Allam è uno dei più profondi conoscitori della realtà del Medio Oriente e dell’Egitto in particolare. Allam è nato al Cairo nel 1952, ma è in Italia dal 1972, fino a prendere la cittadinanza italiana nel 1987 e a convertirsi al cristianesimo. Grande inviato e editorialista de La Repubblica, diventa poi vicedirettore del Corriere della Sera. Poi il salto anche in politica, fondando il movimento “Io amo l’Italia”.
Magdi Allam, ci aiuti a comprendere quello che sta accadendo in Egitto. Le cronache sono convulse, spesso inspiegabili a due anni dalla cosiddetta “primavera araba”. Che cosa sta esattamente succedendo?
Per comprendere la realtà dell’Egitto occorre conoscere i fondamentali di quel Paese. I fondamentali sociali ed economici, altrimenti non si hanno spiegazioni logiche. L’Egitto è un Paese di 83 milioni di abitanti dove il 40 percento delle persone vive sotto la soglia di povertà, cioè con meno di due dollari al giorno. E’ un Paese dove l’analfabetismo raggiunge quota 30 percento e nelle zone rurali, soprattutto tra le donne, arriva all’impressionante quota dell’80 percento. Aggiungiamo pure che il 70 percento della popolazione egiziana è giovane, al di sotto dei trent’anni, il che richiede la necessità, ogni anno, di avere almeno un milione di nuovi posti di lavoro. In una situazione come questa non sono inspiegabili queste esplosioni di violenza legate alla miseria e alle manipolazioni dell’ideologia.
La violenza che esplode periodicamente è la rappresentazione, la fotografia di questa situazione sociale.
Certamente. Tutto quello che sta accadendo è proprio la rappresentazione di questa realtà che sta sfuggendo di mano e che è stata favorita da alcuni eventi e circostanze. Anche da errori e da connivenze dell’Occidente, degli Stati Uniti.
C’è stata una escalation di violenze, anche dopo la caduta di Mubarak e la cosiddetta “primavera araba”. Come è disegnato il potere in Egitto?
Ci sono due forze principali. L’esercito, le caserme, di tradizione laica, che è collegato a quella parte di popolazione che riesce a vivere, che forzatamente potremmo chiamare ceto medio. L’altra forza è quella delle moschee, ormai trasformate in arsenali, che raggruppano tutti i disperati, i poveri. Sono diventate dei poli di aggregazione dei diseredati.
In questo momento, sembra che l’equilibrio penda dalla parte delle moschee. Il passaggio di regime non è servito a creare una democrazia.
In questo momento prevalgono le moschee. Mubarak era un’espressione del potere dell’esercito e anche i governi dei “rais” si reggevano sulla repressione. Ma una parvenza di Stato c’era. Non si può dimenticare che Sadat riesce a fare la pace con Israele. Oggi nelle moschee ritorna il fondamentalismo dei Fratelli musulmani, che non conoscono diritto internazionale, democrazia, diritti delle persone, che pensano che la legge islamica deve essere il principio di tutto. In questo passaggio mal guidato, la precarietà è diventata una regola, con tutti i drammi e i rischi che comporta.
Ma come si è potuto realizzare questo passaggio a una situazione talmente precaria?
Qui emerge la miopia politica o addirittura la connivenza degli occidentali. E’ nel 2005 che gli Stati Uniti cominciano a essere preoccupati per le guerre in Afghanistan e in Iraq. Lì si apre un dialogo, una sorta di “patto scellerato” con i Fratelli musulmani, che sono i contendenti, all’interno del fondamentalismo islamico, dei jhiadisti, di Al Qaeda, dei salafiti. Alle elezioni del 2005, in Egitto, i Fratelli musulmani prendono ben 88 deputati. Cambia in questo modo lo scenario dei Paesi del Medio Oriente e dell’Egitto in particolare.
Dove può sfociare una simile situazione?
Io temo che ci sia il rischio di una nuova guerra in Medio Oriente. Israele è come circondata e i toni di guerra si stanno alzando. Basta pensare all’Iran, alla Siria, dove i Fratelli musulmani ormai stanno passando e si continuano a uccidere cristiani, a Hamas. Ma anche in Turchia ci sono ventate fondamentaliste. E’ difficile pensare che una simile situazione possa essere controllata. Per questa ragione sono pessimista.
(Gianluigi Da Rold)