Il presidente del Consiglio della Libia, Ali Zeidan, è stato prima rapito e poi liberato nell’arco di poche ore. A rivendicare il sequestro è stato uno dei gruppi armati che nel 2011 partecipò alla rivolta contro Gheddafi, la “Camera per le Operazioni Rivoluzionarie in Libia”, che sulla carta è non soltanto alleata del governo ma soprattutto responsabile della sicurezza dei suoi membri. I miliziani hanno dichiarato che il sequestro del premier è stata una ritorsione per l’arresto dell’esponente di Al Qaeda, Abu Anas Al Libi, da parte degli Stati Uniti. Per Arturo Varvelli, ricercatore dell’Istituto di Studi di Politica Internazionale (Ispi), “l’Occidente ha fallito nel suo compito di accompagnare la transizione democratica dopo la caduta di Gheddafi. Illudersi che bastassero libere elezioni per garantire un sistema democratico è stato un errore, che si è aggiunto a quello di un intervento militare della Nato che è stato un vero e proprio suicidio politico”.



Dietro il rapimento di Zeidan da parte delle milizie c’è un disegno politico?

No, le milizie non vanno viste come un’entità politica perché sono tra loro frammentate. La situazione è caratterizzata dall’anarchia, e per condurre un colpo di Stato occorre innanzitutto avere uno Stato, che in Libia manca del tutto. L’autorità centrale di governo e Parlamento non ha il monopolio dell’uso della forza e quindi in queste condizioni è possibile che nei prossimi giorni si verifichino altri attentati. Da diversi mesi il Consiglio dei ministri e il Congresso nazionale sono sotto la minaccia costante di miliziani armati.



Quali sono le cause di questo stato di anarchia?

La causa principale è che non esiste una vera identità nazionale libica. L’unificazione del Paese è un fatto molto recente, avvenuta prima attraverso la Senussia e poi attraverso la Jamahiriya di Gheddafi. Il libico riconosce in sé almeno tre identità: quella nazionale, quella regionale (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) e quella tribale.

Il caos è anche una conseguenza dell’intervento militare armato della Nato?

Sì, in quanto due anni fa Nato, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar hanno armato i ribelli di fatto legittimandoli. In Libia esiste una duplice legittimità: da un lato quella data dal conflitto del 2011 contro Gheddafi e guadagnata sul campo dagli stessi miliziani, dall’altra le elezioni del 2012. Poco prima del rapimento, il segretario di Stato Usa Kerry aveva affermato che “il governo libico era al corrente dell’operazione che ha portato all’arresto di Al Libi”.



Come valuta queste affermazioni?

Di certo si è trattato di una dichiarazione improvvida che ha esposto ulteriormente Zeidan, che già era una figura debole e screditata agli occhi dei miliziani. A essere determinante è stata però anche l’intervista rilasciata mercoledì dallo stesso premier alla BBC, nel corso della quale ha affermato che la Libia era sotto minaccia da parte delle milizie, chiedendo di fatto indirettamente un intervento esterno. Questi due fattori hanno consentito ai miliziani di far passare Zeidan per un traditore.

 

L’Occidente può svolgere un’opera di mediazione in Libia o sarebbe percepita a sua volta come un’ingerenza esterna?

In primo luogo andrebbe incentivato il più possibile un processo di riconciliazione nazionale all’interno dello stesso Paese. In qualche modo le elezioni del luglio 2012 avevano dato una speranza, in quanto avevano registrato una larga partecipazione dei libici al processo democratico. Quest’ultimo però non si risolve nel momento del voto, ci voleva qualcosa di più profondo e radicale ed è a questo livello che la comunità internazionale ha fallito.

 

In che senso?

Dopo la caduta di Gheddafi, la comunità internazionale non ha fatto nulla per favorire la stabilizzazione politica della Libia. Il Paese è stato lasciato in preda a se stesso, privo di qualsiasi istituzione. Con la rivoluzione è caduto tutto in quanto il sistema si reggeva unicamente sulla persona di Gheddafi. Il Colonnello aveva volutamente evitato di creare qualsiasi contrappeso politico al suo potere, e al momento della sua caduta a prevalere non è stata la democrazia bensì il caos.

 

(Pietro Vernizzi)