Ali Zeidan, il Primo ministro libico, era stato il fautore, grazie alla collaborazione degli Usa, della cattura di Abu Anas al-Libi, il terrorista facente parte di un gruppo di jihadisti nonché responsabile di due attentati contro gli americani, uno risalente al 1998 a Mogadiscio e a Dar es-Salaam, in Tanzania, e l’ultimo a settembre di quest’anno nel centro commerciale di Nairobi.
Ciò ha scatenato l’ira del governo fantoccio libico che, dalla morte di Gheddafi, ha una composizione alquanto eterogenea. Tanto da portare al rapimento, durato poche ore, dello stesso Primo ministro, che negli ultimi mesi si era fatto fin troppi nemici: gli islamisti, i salafiti, i jihadisti, i cabili (gli anziani che, grazie al loro carisma, hanno molta presa tra la gente) ed i liberali promotori della rivoluzione. Questi col tempo hanno dato vita ad una sorta di alleanza interna al governo stesso, non vedendo di buon occhio i rapporti con gli Stati esteri e di conseguenza eliminando chiunque osasse intromettersi. L’idea di poter fare la stessa fine dell’Iraq ha portato a frequenti gesti intimidatori anche nei confronti delle ambasciate. Tutti ricordiamo l’attentato al consolato americano che ha provocato la morte dell’ambasciatore Chris Stevens.
Il governo risulta così molto debole, ritrovandosi ad essere non tanto in una situazione di totale anarchia, come la definiscono i francesi, ma in un “caos strutturato”: una parte predilige usi e metodi più tribali e medioevali, basandosi non su documenti scritti, ma sulla parola, mentre l’altra, la fazione a cui fa capo il Primo ministro, è ben più organizzata, dotata di una costituzione e di un programma ben precisi. Il tutto a costituire un groviglio politico venuto alla luce solo a seguito del rapimento, con un messaggio chiaro: ha “tradito” perché ha intrattenuto dei rapporti informali con gli Stati Uniti.
Il che ha rimarcato come il paese sia diviso tra gruppi, di cui uno dei più importanti è quello dei cabili, la cui rilevanza si evince dal fatto che, contrari alla violenza pur essendo un gruppo armato, abbiano impedito proprio loro l’uccisione del Primo ministro. La loro parola ha tanto pesato da portare ad un compromesso: il rapimento al posto della sua uccisione. In caso contrario si sarebbe arrivati ad una gravissima spaccatura interna, che avrebbe degenerato una situazione già piuttosto complicata.
In tutto questo il popolo non ha voce in capitolo e vive nella paura più totale a causa dei ribelli che, come riferiscono gli esperti di geopolitica, sono controllati da alcuni gruppi occidentali (americani, francesi e forse anche italiani che intrattengono affari con la Libia) ed appoggiati dai jihadisti. Mercenari su cui fare leva per tenere la popolazione sotto controllo.
Chi parla viene fatto fuori senza pietà e il popolo libico si ritrova più schiacciato e sottomesso di quanto non lo fosse sotto il regime di Gheddafi. La grande disponibilità di risorse e la volontà di gestirsele da sola, ha portato la Libia a comprare le armi dalla Russia, garantendosi in tal modo il suo appoggio e dimostrando la propria potenza a tutto il mondo.
A questo punto resta da chiedersi perché gli Stati Uniti siano intervenuti ora per l’arresto del terrorista quando avrebbero potuto farlo in qualsiasi momento. Il fatto che abbiano agito proprio ora sta a rimarcare la loro autorità, a dimostrazione probabilmente della loro capacità di entrare in Libia quando vogliono. E la mancata specificazione di come sia stato consegnato il terrorista lascia intendere che ci sia stato un grande contributo delle stesse persone che compongono il governo. Ad ogni modo è chiaro che stiano tentando di immischiarsi nell’affare libico, dopo i tentativi, miseramente falliti, di avere un ruolo determinante nell’Egitto di Morsi prima, e poi di dipingere agli occhi dell’opinione pubblica internazionale la Siria di Assad come il nemico numero uno, in quanto presunto autore di crimini atroci.
Non possiamo voltarci dall’altra parte e far finta di ignorare determinate dinamiche, perché c’è molto di più dietro questo rapimento orchestrato abilmente. Allora guardiamo in faccia la realtà. E facciamo più pressioni sulle organizzazioni internazionali per i diritti umani, affinché ci forniscano un resoconto dettagliato e più veritiero sulle condizioni di vita del popolo, come sempre il primo a pagare le conseguenze dell’instabilità politica.